Un patto che nelle aziende va oltre il contratto

da Mag 28, 2020Rassegna Stampa

L’azienda come «comunità di destino». Bum! verrebbe da aggiungere. Non da oggi, ma soprattutto di questi tempi, le suggestioni e le analisi in chiave di nuova sociologia stanno prendendo piede. Ma del resto questo tocca agli studiosi: dare forma e nome a cose nuove. E i tempi paiono propizi a nuovi battesimi o, forse, a rilucidare vecchie riflessioni e rimettere in circolo idee e atteggiamenti che già qualche nonno aveva.

Mi riferisco, senza darne troppa enfasi, al rapporto spesso molto stretto che in molte aziende inevitabilmente si stringeva fra principale e dipendenti; qualcosa che andava oltre quel che, forse sbrigativamente, molti anni fa (fine ‘800 addirittura o primi ‘900) si definiva “paternalismo” ma che ha significato spesso un welfare aziendale a dir poco avanzato: le case ai dipendenti, le scuole o le vacanze per i figli dei dipendenti, gli spacci interni (in forma cooperativa, qualcuno esiste ancora). Archeologia industriale.

Oggi la si vorrebbe recuperare dentro questa cornice “virtuosa” che vorrebbe trasformare il posto di lavoro – l’azienda in una comunità, una comunità di destino, appunto, che presuppone qualcosa di più di un contratto per trasformarsi in patto; qualcosa che va oltre lo stipendio e che prevede più partecipazione delle persone, più coinvolgimento, più rispetto, più attenzione alla salute di chi lavora dentro e vive fuori.

L’idea di una comunità che fa fatturato ma non solo, l’idea di un’ azienda, per dirla in una parola, più buona. Altro bum! Idea magnifica, forse velleitaria, ma – fossi un’ impresa – ci rifletterei; dipenderebbe da quel che vorrei diventare. Un sondaggio su 3 mila studenti universitari dice che i soldi non sono la prima cosa (ma la terza) che guardano al momento del cercare un lavoro. La prima virtù richiesta è la qualità dell’azienda, il senso che si dà nel mondo. Riflettiamoci.

*Il seguente articolo è stato pubblicato su Giornale di Brescia, il 28 maggio 2020

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