Post Covid. Più welfare, meno fisco? Adesso la sfida è la partecipazione

da Mag 28, 2020Rassegna Stampa

Il refrain del momento e’ che con il Covid-19 «siamo come in guerra» o – sperabilmente – «siamo stati come in guerra». Rispetto al conflitto del 1940-1945 si dimentica, pero’, una differenza di non poco conto: dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in Italia (come altrove), restava ben poco della struttura economica e produttiva, in gran parte tutto era da rifare.

Sarà più facile? Oggi ripartire dovrebbe essere ragionevolmente più facile. Lo vedremo. Difficilissimo provare ad avanzare qualunque ipotesi dotata disenso, per il momento.

Ma sin d’ ora, provando a leggere in controluce anche i primi segnali emersi nel pieno dell’ emergenza e’ possibile avanzare un’ ipotesi precisa: la differenza, domani piu’ di ieri, verra’ dalla “cultura del welfare” presente all’interno dell’ azienda. L’emergenza di questi giorni non fara’ che enfatizzare le differenze di approcci tra aziende free riding e aziende sharing value.

Più welfare per meno fisco?

Da un lato, abbiamo le aziende che prima del Covid-19 pensavano il Welfare Aziendale (WA) in modo del tutto strumentale, seguendo logiche di free riding finalizzate a “nascondere”, dietro le retoriche welfariste, esigenze (certamente lecite, talvolta addirittura comprensibili in un Paese come l’ Italia) piu’ basiche e contingenti. In sostanza chi ha “fatto” WA avendo in mente innanzitutto (o esclusivamente) l’immagine dell’azienda o, piu’ spesso, la possibilita’ di alleggerire un po’ i costi relativi alla parte variabile dello stipendio – nello specifico: il premio di risultato (PdR) – difficilmente proseguira’ su questa strada.

Ma c’è chi fa più ascolto. Dall’ altro lato, stanno le aziende che hanno saputo abbracciare da tempo la cultura del “valore condiviso” (sharing value) tra azienda, lavoratori e altri stakeholder, applicandola alle logiche interne di HR management e a serie politiche di “people care” integrate nelle strategie aziendali. Sono di solito le aziende che hanno investito non soltanto sui flexible benefit e sulla convertibilita’ del PdR, ma che hanno costruito organici piani di WA a partire dall’ ascolto reale delle esigenze delle persone, coinvolgendo (la’ dove presente) il sindacato in una dinamica di ridefini zione dello scambio tra prestazione e salario capace di contabilizzare anche il benessere della persona tra gli elementi da tenere in considerazione.

Queste aziende, come gia’ stiamo osservando in queste settimane, saranno ancora piu’ protagoniste sul fronte del rafforzamento del benessere dei lavoratori.

Il fossato si allarga? L’epidemia è destinata ad allargare il fossato tra questi due tipi di approccio al WA? Non necessariamente. Anzi, e’ possibile che l’esperienza di queste settimane possa spingere molte aziende free rider a cogliere questa emergenza come un’occasione per un cambio di rotta nella propria cultura organizzativa.

Insieme se si è stati insieme.

Di fronte alle criticita’ cui e’ stata ed e’ tuttora sottoposta la business continuity delle imprese (inclusa la negligente assenza di corrette dotazioni ICT e di programmi di disaster recovery che la pandemia ha impietosamente svelato), i datori di lavoro si sono resi conto, una volta di piu’, di quale sforzo e di quale capacita’ operativa possano essere protagonisti team aziendali realmente motivati e in grado di generare risposte che solo una forte spinta ver sola reciprocita’, generata da condotte attente alla persona nella sua totalita’, e’ in grado di attivare.

Ovviamente ci stiamo riferendo a quelle aziende dove la comprensione di cio’ che stava accadendo non e’ stata nascosta con l’ ordine di lavorare comunque e a testa bassa, ma che prima delle (e non gia’ contro le) esigenze produttive hanno anteposto la salute dei loro dipendenti.

*Il seguente articolo è stato pubblicato su Giornale di Brescia, il 28 maggio 2020

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