L’accesso dei lavoratori detenuti al welfare aziendale

da Apr 19, 2019Studi e approfondimenti

di Alessandro Alcaro*

La c.d. riforma penitenziaria del 2018 ha apportato varie modifiche alla disciplina di cui alla l. n. 354/1975 (di seguito “ordinamento penitenziario” o “o.p.”), anche dall’angolo visuale giuslavoristico, senza tuttavia intervenire direttamente sulla disciplina del rapporto di lavoro dei detenuti alle dipendenze delle imprese private. Secondo la dottrina e giurisprudenza dominanti, a tale rapporto di lavoro si applica il medesimo trattamento economico e normativo previsto per i lavoratori in stato di libertà, salvo le peculiarità espressamente indicate nella normativa speciale penitenziaria, come ad esempio il versamento della retribuzione non direttamente al lavoratore detenuto ma alla direzione d’istituto. Ciò a causa del principio per cui l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale (art. 20, c. 3, o.p.). Se è così, anche il lavoratore detenuto, così come il lavoratore libero, avrebbe diritto ai servizi di welfare aziendale eventualmente messi a disposizione dall’impresa o cooperativa sociale datrice di lavoro e rivolti alla generalità dei dipendenti, stante l’assenza di una deroga esplicita in tal senso.

In realtà, la questione è notevolmente complessa, priva di indagine in letteratura scientifica: per il momento ci si limiterà ad alcune riflessioni di carattere generale alla luce dell’attuale disciplina dell’ordinamento penitenziario.

Deve prendersi atto della peculiare situazione del detenuto, alla cui limitazione della libertà personale si correla un penetrante potere dell’amministrazione penitenziaria in ordine alla gestione della quotidianità: dei tempi, dei luoghi, dei beni possedibili e scambiabili. Potere penetrante disciplinato dal regolamento interno o, in sua assenza, dalla disposizione del direttore d’istituto, nel rispetto delle indicazioni di cui all’ordinamento penitenziario e al regolamento d’esecuzione, il d.P.R. n. 230/2000 (di seguito “reg. es.”), ed esercitato in conformità alle circolari emanate dal Dap.

In particolare, occorre tenere conto del fatto che, in attuazione del principio di garanzia di pari condizioni di vita ai detenuti (art. 3 o.p.) i valori monetari del detenuto possono confluire o nel fondo vincolato del peculio, o nel fondo disponibile, ovvero eccedere quest’ultimo ad avere un’ulteriore destinazione, secondo la disciplina dell’art. 57 reg. es.

Il fondo vincolato è costituito dalla quota di un quinto della retribuzione del lavoratore detenuto, mentre il fondo disponibile è costituito dall’insieme di una serie di valori quali la remunerazione all’esito dei prelievi ammessi dall’ordinamento penitenziario, denaro all’ingresso in istituto, ricavato della vendita degli oggetti di proprietà dell’utenza o inviato dalla famiglia e da altri o ricevuto a titolo di premio o di sussidio, fino al limite massimo di 1032,91 €; ciò che eccede tale limite, salvo che non debba essere immediatamente utilizzato per spese inerenti alla difesa legale, al pagamento di multe o ammende, nonché al pagamento di debiti, “viene inviata ai familiari o conviventi secondo le indicazioni dell’interessato, o depositata a suo nome presso un istituto bancario o un ufficio postale”.

Il detenuto non può possedere denaro (art. 14 reg. es.), ma può utilizzare il fondo disponibile del peculio, attraverso un “libretto” di conto corrente consegnato dalla direzione d’istituto, che può essere alimentato anche con flussi di denaro provenienti dall’esterno.

Questa disciplina consente potenzialmente la piena fruibilità del c.d. welfare rimborsuale (spese per l’acquisto di abbonamenti per il trasporto pubblico, servizi di educazione e istruzione, ivi inclusi i servizi di mensa nonché la frequenza di ludoteche e di centri estivi ed invernali, servizi di assistenza a familiari anziani e non autosufficienti) a beneficio dei propri familiari. Infatti le somme rimborsate dovrebbero essere accreditate alla direzione d’istituto (mediante vaglia postale, consegna del denaro allo sportello – colloqui ovvero accredito su C/C bancario, laddove previsto), la quale a sua volta dovrebbe accreditare le somme sul “libretto” di conto corrente consegnato al detenuto e che rappresenta il fondo disponibile del peculio, dunque soggetto al limite massimo di 1.032,91 €. Le somme derivanti dal rimborso delle prestazioni di welfare aziendale (laddove consentito) ed eccedenti l’anzidetto limite sarebbero inviate ai familiari o conviventi, o depositate a nome del lavoratore detenuto presso un istituto bancario o un ufficio postale.

L’erogazione “interna” delle misure di welfare da parte del datore di lavoro attraverso i propri mezzi e la propria organizzazione così come l’erogazione esternalizzata attraverso una rete di fornitori della prestazione può avvenire nei limiti della disciplina penitenziaria, rispettivamente nei limiti di agibilità ammessi dalla convenzione con la direzione d’istituto e principalmente da parte di enti già abilitati ad operare all’interno dell’istituto di pena (ad esempio lo spaccio interno deputato alla vendita di generi alimentari) in base ad una convenzione con il datore di lavoro.  Più complessa l’erogazione di prestazioni di welfare da parte di fornitori esterni, stante gli ostacoli normativi (prima ancora che fisici) all’ingresso di terzi nell’istituto penitenziario e all’uscita di lavoratori detenuti da esso e correlata libertà di movimento: tale situazione rende potenzialmente accessibili quali misure di welfare i contributi per la previdenza complementare ovvero contro il rischio di non autosufficienza o gravi patologie, e l’assistenza sanitaria integrativa (a beneficio dei familiari), nonché le erogazioni in natura fino a 258,23 € annui, riconducibili alla fornitura di specifici beni.

Tali beni, erogati attraverso lo schema del welfare innominato di cui all’art. 51, c. 3 Tuir, possono provenire anche dall’esterno, purché nel rispetto dell’art. 14 reg. es.: consegna nel limite di quattro pacchi al mese di peso non superiore a 20 kg, soggetti a previ controlli, contenenti esclusivamente generi di abbigliamento e generi alimentari di uso comune che non richiedono manomissioni in sede di controllo e sempre purché tali generi non superino le normali esigenze dell’individuo. Sarebbe così possibile acquistare all’esterno generi alimentari a costi sensibilmente inferiori rispetto a quelli dello spaccio interno, che la prassi attesta essere superiori a quelli di mercato a causa dell’assenza di concorrenza.

Gli acquisti di beni e generi alimentari possono avvenire anche nello spaccio interno dell’istituto di pena, tra quelli ammessi dal regolamento interno “finalizzati alla cura della persona e all’espletamento delle attività trattamentali, culturali, ricreative e sportive. Tuttavia a parere di chi scrive l’acquisto di beni e generi alimentari può avvenire nel rispetto dei limiti di spesa previsti per il sopravvitto: dunque, in concorso con gli altri valori che concorrono al fondo disponibile del peculio, gli importi accreditati sul conto welfare non potrebbero essere utilizzati per gli acquisti e la corrispondenza per un massimo di 500,00 € mensili (150,00 € settimanali) e per gli invii ai familiari e ai conviventi per un massimo di 750,00 € mensili (previa autorizzazione direzione d’istituto sempreché si tratti di “prestazioni integrative”, altrimenti massimo 350,00 € mensili).

Se così non fosse, appare evidente che gli acquisti di beni e generi alimentari a mezzo del welfare aziendale consentirebbero di aggirare i suddetti limiti fissati in attuazione del principio di pari condizioni di vita tra i detenuti di cui all’art. 3 o.p.

Com’è noto, l’erogazione esternalizzata del welfare aziendale tendenzialmente avviene a mezzo dei voucher, ossia documenti di legittimazione in formato cartaceo od elettronico, così come la gestione del budget figurativo riconosciuto a ciascun lavoratore da fruire in servizi di welfare (il c.d. contro welfare) avviene a mezzo delle piattaforme informatiche. Anche l’utilizzo di tali strumenti non è affatto agevole nella realtà detentiva.

Nonostante le indicazioni più recenti del Dap promuovano l’utilizzo delle apparecchiature informatiche e della connessione internet con finalità rieducativa (ad esempio per svolgere la prestazione di lavoro ovvero effettuare colloqui via skype con i familiari), è evidente che le soverchianti esigenze di sicurezza (e di bilancio) costituiscano un ostacolo alla disponibilità da parte del lavoratore detenuto di un’apparecchiatura informatica che consenta l’accesso alla piattaforma di gestione del welfare e di fruizione telematica dei voucher. Allo stesso modo, ostacoli sussistono all’utilizzo di voucher cartacei, per i quali, occorre che il possesso sia abilitato dal regolamento interno, ai sensi dell’art. 14 reg. es.

Si può ipotizzare, stante l’assenza di espliciti divieti sul punto, che, in caso di impossibilità di gestione telematica del conto welfare, il lavoratore detenuto possa delegare in tal senso un suo familiare o più in generale un terzo, fermo restando che i servizi di welfare debbano essere fruiti esclusivamente dal titolare o, laddove consentito, dai suoi familiari. D’altra parte, stante le drastiche limitazioni all’utilizzo della telefonia ed ai limiti oggettivi della corrispondenza, ogni altra soluzione di gestione diretta (magari interfacciandosi con l’amministrazione del provider) appare impraticabile.

In conclusione, appare evidente che, per essere effettivamente operativo e fruibile per i lavoratori detenuti, il welfare aziendale richiede una sua regolazione mediante apposito protocollo tra azienda e direzione d’istituto, per disciplinare aspetti come l’accesso alla piattaforma telematica di gestione del welfare, l’utilizzo dei voucher, l’erogazione diretta da parte del datore di lavoro di prestazioni (ad esempio servizi di assistenza legale o fiscale, o della mensa aziendale), il meccanismo di computo del concorso del budget figurativo e del fondo disponibile del peculio in caso di acquisto di beni e generi alimentari. La regolamentazione tramite protocollo è soprattutto necessaria a preservare le esigenze di sicurezza ed il principio di assicurazione di pari condizioni di vita ai detenuti. Tale principio è finalizzato proprio a prevenire differenziazioni e affermazione di posizioni di egemonia tra i detenuti. In tal senso, le utilità derivanti da servizi di welfare potrebbero rappresentare il principale degli elementi di differenziazione all’interno dei reparti detentivi, contribuendo a realizzare e consolidare posizioni di leadership e di subordinazione tra reclusi. Tuttavia, a parere di chi scrive, se il maggiore potere di autosostentamento e supporto ai familiari non deriva dall’appartenenza a sodalizi criminali, ma sia correlato al rapporto di lavoro svolto dal recluso, tale principio dovrebbe essere soggetto ad opportuni contemperamenti.

In assenza di una regolamentazione tramite protocollo (in assenza di intervento normativo o circolare del Dap), l’unico welfare aziendale ipotizzabile per i lavoratori detenuti sembra essere esclusivamente quello solo indirettamente fruito dagli stessi: il welfare rimborsuale a beneficio dei familiari (ivi inclusa l’assistenza sanitaria integrativa) e quello consistente in contributi e premi versati per la previdenza complementare o contro il rischio di non autosufficienza o gravi patologie, gestito telematicamente dai familiari (o comunque terzi) dietro mandato del lavoratore detenuto.

 

*Il seguente articolo è stato pubblicato su Bollettino ADAPT 5 aprile 2019, n. 15

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