Welfare. Tra reddito di base e servizi gratuiti vinca il bene comune

da Mag 4, 2018Rassegna Stampa

Lo Stato deve distribuire la ricchezza che si produce per assicurarne a tutti una quantità sufficiente oppure deve produrre servizi per garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni fondamentali?

di Francesco Gesualdi*

La decisione della Finlandia di sospendere la sperimentazione del reddito universale non cancella la necessità di continuare a riflettere su ciò che lo Stato deve fare per difendere i cittadini dalla precarietà e dall’insicurezza. E proprio su questo tema in Europa si è aperto un dibattito: ‘Ubi’ o ‘Ubs’? Dove Ubi sta per universal basic income e Ubs per universal basic services. Due proposte con molti punti in comune che però rivelano anche concezioni molto diverse sul ruolo dello Stato. Due diverse visioni che potremmo riassumere nei quesiti: distribuire o produrre? In altre parole, lo Stato – o, meglio, la comunità – deve limitarsi a fare da collettore e distributore della ricchezza che si produce nel mercato per assicurare a tutti una quantità minima di soldi, o deve produrre servizi per garantire a tutti il soddisfacimento concreto dei bisogni fondamentali?

L’erogazione di sussidi da parte dello Stato non è una novità, ma il reddito di base è una cosa diversa dall’indennità di disoccupazione, dal reddito minimo d’inclusione e dallo stesso reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 stelle, tutte forme di intervento che hanno come obiettivo il sostegno a particolari situazioni di bisogno. Il reddito di base è universale e incondizionato: è un assegno dello stesso importo staccato a favore di tutti, vita natural durante, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla situazione occupazionale e perfino dalla ricchezza. E se stride col principio che non c’è niente di più ingiusto che fare le parti uguali fra disuguali, l’intento teorico del reddito universale è di dichiarare tutti i cittadini uguali perché a tutti riconosce il diritto di ricevere un minimo vitale senza dover fornire nessuna altra giustificazione se non quella di esistere. Volendo insistere sugli aspetti positivi, un altro risultato importante del reddito universale sarebbe la fine dell’apartheid nei confronti dei lavori domestici e di cura della persona, oggi senza alcuna considerazione sociale perché privi di compenso monetario. E mentre gli scettici sostengono che con un reddito minimo garantito più nessuno si cercherebbe un lavoro retribuito, va ammesso che potrebbe operare miracoli sul piano della qualità della vita, sia per la ritrovata sicurezza nei confronti della precarietà generata dal mercato, sia per la recuperata libertà di poter dedicare del tempo allo studio, al fai-da-te, alle relazioni affettive e sociali.

Ma il reddito di base potrebbe essere letale per le casse pubbliche. È stato calcolato che per garantire un reddito di 10mila euro all’anno, una cifra di poco superiore alla linea della povertà relativa, non a tutti, ma ai soli maggiorenni, ci vorrebbero 480 miliardi di euro all’anno, l’85% delle entrate tributarie. Il che significherebbe la scomparsa dello Stato come agente economico, col risultato di una società più insicura perché lascerebbe i cittadini soli di fronte ai bisogni fondamentali che non possono essere affrontati individualmente: alloggio, istruzione, sanità. La conclusione sarebbe che chiederemmo allo Stato di immolarsi sull’altare di un’azione redistributiva a esclusivo vantaggio del mercato, perché avremmo cittadini con più capacità di consumo individuale, ma totalmente sprovvisti di solidarietà collettiva.

Per questo, pur riconoscendo la validità teorica del reddito universale di base, mi dichiaro per la convenienza pratica dell’altro modello, quello dei servizi universali di base. Benché con meno appeal perché meno capace di garantire la totale libertà di gestione del tempo da molti reclamata, la società dei bisogni garantiti è una soluzione più sicura, più dignitosa e più sostenibile. Più sicura perché permette a tutti di soddisfare i bisogni che nella scala delle priorità stanno ai primi posti: acqua, alloggio, igiene, energia, istruzione, sanità. Una società civile non lascia nessuno indietro rispetto a queste esigenze e opera tutta la solidarietà che serve affinché tutti possano soddisfarle adeguatamente. Una società Ubs è anche più dignitosa perché restituisce ai cittadini ciò che i cittadini danno, non tanto sul piano monetario quanto su quello lavorativo. Poter vivere del proprio lavoro, senza dipendere da nessuno, è una delle punte più alte della dignità umana e la società dei bisogni garantiti contribuisce a questo obiettivo perché per avere servizi ci vuole lavoro. Così scopriamo che la società dei bisogni garantiti è un potente generatore di lavoro che, se gestito in maniera equa, rappresenta una grande opportunità di inclusione lavorativa per tutti. Infine, la società Ubs è più sostenibile, da una parte perché può orientare le abitudini, dall’altra perché non si limita a garantire i bisogni individuali, ma anche la protezione dei beni comuni.

Parlando di abitudini, uno degli aspetti che dobbiamo modificare, se vogliamo salvare questo pianeta, è il modo di muoverci. Inevitabilmente dobbiamo abbandonare le auto private e orientarci verso i mezzi pubblici, scelta possibile solo se disponiamo di un servizio pubblico efficiente e conveniente. Non a caso in Germania si sta sperimentando l’uso gratuito dei trasporti urbani. Quanto ai beni comuni, se da una parte si tutelano con nuove forme di produzione e di consumo ispirate al senso del rispetto, dall’altra servono anche interventi riparativi. Basti pensare allo stato dei nostri boschi, dei nostri fiumi, delle nostre spiagge, per rendersene conto. Ma per prendersi cura dei beni comuni c’è bisogno di una comunità che non distribuisce solo soldi a uso individuale, ma che sa muoversi come un tutt’uno per obiettivi condivisi.

 

*Il seguente articolo è stato pubblicato su Avvenire, il 3 maggio 2018

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