La nuova frontiera della crescita passa dal welfare aziendale

da Dic 10, 2025Rassegna Stampa

L’arrivo dell’intelligenza artificiale, le pressioni demografiche e le norme Ue sulla trasparenza ridisegnano il ruolo dei benefit aziendali

Aggiornamento continuo, benessere psicofisico, parità retributiva e ambienti inclusivi stanno diventando pilastri della competitività. In un mercato del lavoro attraversato da trasformazioni sempre più rapide, la capacità di mantenere competenze solide e garantire stabilità emotiva ai lavoratori è ormai una leva strategica per la crescita delle aziende e dei Paesi.

A confermarlo sono anche gli studi internazionali. L’Employment Outlook 2024 dell’Ocse indica che la produttività dei Paesi non dipende solo da tecnologia e capitale, ma dalla qualità delle condizioni di lavoro e dall’accesso alla formazione continua. Dove i lavoratori sono più preparati e supportati, cresce la capacità di integrare nuove tecnologie, innovare e assorbire shock economici. Il rapporto Future of Jobs 2025 del World Economic Forum aggiunge che entro cinque anni il 44% delle competenze richieste cambierà, trasformando il welfare aziendale in uno strumento necessario per sostenere formazione e processi di upskilling (miglioramento competenze) e reskilling (cambio competenze).

Una direzione confermata dalle rilevazioni 2024-2025 di Eurofound, secondo cui la “qualità del lavoro” — intesa come sicurezza, autonomia, crescita professionale, relazione con i manager — è oggi uno dei principali motori della produttività nelle economie avanzate. E non riguarda solo il settore privato: sempre più amministrazioni pubbliche europee stanno adottando indicatori analoghi per valutare l’efficacia organizzativa, segno che il confine tra welfare e performance sistemica si sta assottigliando. A questo scenario si somma la nuova spinta regolatoria europea, che negli ultimi due anni ha ridefinito in profondità il perimetro sociale dell’impresa. La Corporate Sustainability Reporting Directive è operativa per tutte le grandi aziende e per quelle già coperte dalla precedente Nfrd (Non-Financial Reporting Directive). La direttiva impone di rendicontare indicatori sociali puntuali: condizioni di lavoro, sicurezza, tassi di infortunio, formazione, turnover, politiche di parità, differenziali salariali, salute mentale. Non più descrizioni qualitative, ma dati verificabili e controllati da revisori esterni, destinati a incidere su governance, strategie Hr e piani industriali.

A questo si affianca la Direttiva Ue sulla trasparenza salariale, che l’Italia dovrà recepire entro il 7 giugno 2026. Le imprese dovranno indicare la fascia retributiva negli annunci di lavoro, rendere trasparenti criteri e processi di avanzamento, e avviare verifiche obbligatorie quando il divario retributivo supera il 5% senza giustificazioni oggettive. Una riforma resa urgente dai numeri: secondo dati Eurostat, il gender pay gap medio nell’Ue è del 12%. In Italia, il Rendiconto di genere 2024 dell’Inps rileva un gap del 20%, con punte del 39,9% nel settore immobiliare e del 35,1% nelle professioni scientifiche e tecniche. La pressione normativa agisce in un mercato del lavoro già sotto tensione.

Grafico a cura di Silvano Di Meo
Grafico a cura di Silvano Di Meo 

L’Italia combina bassa natalità, ridotta disponibilità di competenze tecniche e una crescente propensione dei lavoratori a valutare il proprio impiego non solo in base al salario, ma anche alla qualità dell’ambiente di lavoro. Dopo la pandemia, la domanda di flessibilità — oraria e organizzativa — è diventata strutturale, soprattutto tra i profili più qualificati. Parallelamente, nei settori industriali cresce il bisogno di aggiornamento continuo per affrontare la digitalizzazione delle filiere e l’arrivo dell’intelligenza artificiale generativa. In questo contesto, il welfare assume una funzione di stabilizzazione: riduce il turnover, sostiene la continuità produttiva e rende l’azienda più attrattiva in territori che faticano a reperire manodopera. Lo confermano anche i dati dell’Osservatorio Welfare 2025 di Edenred. La ricerca, che ha coinvolto oltre 5 mila aziende, mostra che il 49% delle imprese ha ormai un piano welfare strutturato (era il 42% nel 2024). La quota sale al 62% tra le grandi imprese e al 71% nelle multinazionali. I fringe benefit (compensi non in denaro che un’azienda offre ai dipendenti, come buoni spesa, buoni carburante, contributi per bollette) restano lo strumento più diffuso, con il 52% della spesa totale e un utilizzo particolarmente alto tra gli under 30. Ma cresce anche la diffusione di piattaforme integrate che combinano formazione, supporto psicologico, flessibilità, mobilità sostenibile e servizi familiari: un’evoluzione che sposta il welfare da strumento transazionale a infrastruttura di benessere continua.

Un altro fronte in trasformazione è quello della contrattazione aziendale. In molti settori — dalla manifattura ai servizi digitali — i piani welfare stanno diventando parte stabile degli accordi integrativi. Le imprese li utilizzano per migliorare l’inclusione, favorire il rientro al lavoro dopo maternità e congedi, sostenere la genitorialità e rafforzare la relazione tra manager e team. L’effetto è duplice: sul piano economico migliora la produttività, su quello sociale aumenta il senso di appartenenza e si riduce la distanza tra vita professionale e personale.

Per l’Italia, che dovrà competere su innovazione, tecnologia e capitale umano, il welfare è una componente indispensabile. La nuova partita si gioca nella capacità delle imprese di costruire ecosistemi moderni di benessere, equità e sviluppo. Chi saprà farlo, sarà più solido nelle transizioni dei prossimi anni.

*Il seguente articolo è stato pubblicato su www.repubblica.it, il 9 dicembre 2025

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