MANOVRA & LAVORO. Le “sviste” e le lacune che è ancora possibile correggere
La Legge di bilancio interviene anche in materia di lavoro, ma in modo non proprio positivo. Ma è possibile apportare correzioni.
Il disegno di legge recante “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2026 e bilancio pluriennale per il triennio 2026-2028” (ossia la c.d. manovra) è stato inviato al Senato, che ha iniziato a incardinarlo nelle competenti commissioni. Come oramai usuale, sarà solo questo il ramo del Parlamento che ne dibatterà, secondo la logica dell’alternanza (l’anno scorso fu il turno della Camera dei deputati). È improbabile che siano approvati nella discussione parlamentare emendamenti stravolgenti il testo iniziale, sebbene la storia della politica sia piena di sorprese, che potremo valutare solo a fine percorso, nel mese di dicembre.
Per quanto concerne i temi del lavoro, si tratta di una manovra nel complesso coerente, della quale è chiara la direzione (indipendentemente dalla condivisione della rotta), ma che manca di coraggio, prima ancora che di risorse, per potere essere giudicata incidente sulle (positive) dinamiche del lavoro del nostro Paese. Di certo è manifesta una grave mancanza (che potrà essere corretta dai senatori), accanto a un intervento tecnicamente scomposto e a una soluzione che sconta un eccesso di prudenza.
In analitico ordine di “gravità”, è piuttosto stupefacente l’assenza di una norma di esplicito rifinanziamento del fondo per la partecipazione dei lavoratori dal quale sono attinti gli incentivi disposti dagli articoli 5 e 6 della legge 76 del 2025, quella proposta dalla Cisl con iniziativa popolare, poi sostenuta dal Governo e da parte dell’opposizione.
Si tratta, senza dubbio, del più corposo e ambizioso (tecnicamente e culturalmente) intervento legislativo in materia di lavoro approvato da questo Governo: quale la ragione della dimenticanza dell’aggiornamento dei riferimenti all’anno 2025 (che deve diventare 2026 o strutturarsi senza scadenza) contenuti nel testo originario? Tanto più che il fondo dedicato è ancora molto “fornito”, essendo la legge operativa solo dal 10 giugno. L’inciampo può (deve) essere agilmente corretto dal Senato, pesando ben poco sulle casse dello Stato.
L’intervento scomposto è quello di incentivazione del rinnovo dei Ccnl. Se da una parte risulta comprensibile il tetto posto a 28.000 euro di reddito da lavoro per beneficiario (non a caso si tratta della soglia fino alla quale si applica la prima aliquota Irpef), dall’altra non si comprende perché la norma non operi anche sugli incrementi derivati dai contratti sottoscritti nel 2024: gli accordi relativi al personale operante nel turismo, nel commercio, nei servizi e nei pubblici esercizi sono stati sottoscritti in quell’anno, non nel 2025.
Si tratta della platea maggiormente interessata a una misura con un limite reddituale come quello ricordato, poiché i metalmeccanici, che stanno affrontando una difficile e lunga fase di negoziazione, hanno redditi medi di molto superiori alla cifra stabilita dal Governo.
Insomma: la norma, così concepita, non riesce a ristorare gli addetti del terziario, ma neanche aiuta il rinnovo del principale contratto del secondario. Chi ne ha quindi vantaggio? Non pochi osservatori hanno subito notato l’assenza di riferimenti alla maggiore rappresentatività comparata delle parti sottoscriventi i contratti: forse si sono voluti aiutare i Ccnl minori, compresi quelli che operano in dumping?
Differente è l’equivoco sui premi di produttività (l’eccesso di prudenza). La Legge di bilancio, nel capitolo lavoristico, è stata costruita attorno a due interventi di natura orizzontale, miranti a contenere il cuneo fiscale per il ceto medio (taglio di due punti della seconda aliquota Irpef) e per i redditi più contenuti (sgravio fiscale per gli incrementi salariali derivanti dal rinnovo dei Ccnl, come si è visto). Queste misure sono del tutto slegate da fattori di merito e di produttività, che pure è un cronico problema del nostro mercato del lavoro.
Il meccanismo dei premi di produttività/di risultato non si inceppa a causa dell’aliquota applicata (5% è comunque molto poco), né per il tetto imposto dalla normativa precedente (3.000 euro, comunque superiore alla media dei premi erogati in Italia): il problema è il vincolo, piuttosto cervellotico e assai risalente nel tempo (2012, Governo Monti: un’altra era economica!) degli indicatori variabili e incrementali. Bene ha fatto la Cisl a chiederne il congelamento, (timidamente) sostenuta anche da molte associazioni datoriali. La richiesta non è stata però esaudita e il permanere di questi vincoli depotenzia non poco le novità approvate.
Spetta ora al Senato correggere le misure incapaci di generare maggiore crescita o addirittura foriere di problemi, perché possa effettivamente realizzarsi, anche in materia di lavoro, nonostante la scarsità di risorse, quella “stabilità espansiva” esplicitamente ricercata dal Governo.
*Il seguente articolo è stato pubblicato su Ilsussidiario.net, il 24 ottobre 2025
 
					



