La partecipazione chiave per la crescita delle imprese

da Ago 25, 2025Comunicati e materiali AIWA, Dicono di noi

LE VIE DELLO SVILUPPO. La priorità è far lievitare le retribuzioni con una equa ed inclusiva distribuzione della maggiore produttività.

di Renato Brunetta e Emmanuele Massagli*

Il secondo dopoguerra fu un periodo straordinariamente fecondo di idee. L’entusiasmo della rinascita economica contagiò i partiti, l’Accademia e le forze sociali. Di questo fermento si ha prova in numerosi documenti dell’epoca, che hanno edificato le fondamenta dell’Italia repubblicana, orientando i lavori dell’Assemblea costituente. Tra i manifesti che hanno maggiormente condizionato la scrittura della Carta va certamente ricompreso il Codice redatto nel luglio 1943 presso il Monastero di Camaldoli da trenta giovani cattolici esperti di scienze sociali. Non un proclama teorico, quanto il tentativo di dare attuazione alla dottrina sociale della Chiesa, prospettando alcune direzioni di riforma dell’assetto costituzionale e politico del Paese. Tre le direttive principali: l’affermazione della dignità della persona e del suo primato rispetto allo Stato, così come di quello dei corpi intermedi frutto della relazione tra le persone (sussidiarietà); la necessità della democrazia; il ruolo della politica come garante e promotrice della giustizia sociale e dell’eguaglianza. I principi contenuti in quelle pagine, incontrando le istanze delle altre dottrine protagoniste della vita culturale italiana, hanno generato le fondamenta della Costituzione italiana, alla cui scrittura parteciparono diversi intellettuali presenti anche a Camaldoli. In apertura della quarta sezione del Codice, quella dedicata al lavoro, si legge un proposito piuttosto originale, allora come oggi: occorrono interventi diretti a «consentire al lavoratore di partecipare effettivamente ed attivamente attraverso appropriati istituti, alla formulazione delle condizioni di lavoro ed alla determinazione dei criteri di retribuzione» (par. 56) e perché gli stessi lavoratori possano «adoperarsi per il buon andamento aziendale, anche al di fuori dello specifico compito ad essi assegnato» (par. 57). Risuonano, senza equivoci, le parole scritte oltre cinquant’anni prima da Leone XIII nella grande enciclica sociale Rerum Novarum («né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie», periodo n. 15).

La rilettura di queste righe permette di meglio comprendere quali fossero le intenzioni di Giovanni Gronchi, Amintore Fanfani, Ferdinando Storchi e Giulio Pastore quando in Assemblea costituente presentarono l’emendamento da cui è nato l’articolo 46 della Costituzione. Come noto, in questa disposizione si legge che «ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare (…) alla gestione delle aziende». In un certo qual modo, il popolarismo cattolico diventò il terreno di incontro tra le due forze centrifughe che in quegli anni si fronteggiavano in una guerra che, per quanto “fredda”, fu assai dannosa anche sotto il profilo culturale: il liberismo anglosassone della “mano invisibile” e il dirigismo sovietico della “mano (pesante) dello Stato”. I padri costituenti vollero individuare una vera e propria terza via tra questi due poli, provando a superare la tensione sociale attraverso modelli di governance aziendale di impronta cooperativa e non conflittuale. L’Italia era reduce da una prima espansione industriale profondamente segnata dal taylorismo, dalla crisi del capitalismo degli anni Trenta e da diffuse rivendicazioni sindacali, che avevano generato spontaneamente prime esperienze di partecipazione quali i consigli di gestione aziendale. Ciò aveva impensierito non poco il primo partito di allora (la DC) che, pur favorevole a logiche collaborative, temeva uno sconfinamento dei vincoli organizzativi e di proprietà allorquando fosse stato riconosciuto ai lavoratori un ruolo troppo invasivo. Questa posizione era ampiamente supportata non solo tra i liberali, ma, fuori dall’ambito politico, tra i piccoli e grandi industriali, preoccupati dalla potenziale imposizione di meccanismi di cogestione (in un certo qual modo sono le stesse preoccupazioni degli imprenditori di oggi). Di contro, il PCI sosteneva un modello di partecipazione più radicale, in cui i lavoratori avessero non soltanto un controllo significativo sulle decisioni aziendali, ma anche parziale proprietà delle imprese. Durante i lavori della Terza Sottocommissione furono i membri democristiani a proporre, con successo, l’originale formulazione dell’articolo 46, da declinarsi «nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi».

Perché ci sono voluti ben 77 anni per formulare legislativamente questa straordinaria aspirazione? Dalla metà degni anni Sessanta, fino al punto di svolta dell’accordo di San Valentino del 1984, la partecipazione è stata impedita, quando non proprio sabotata, dal crescente, ideologico e politicamente connotato clima di tensione sociale. Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta (quando sono state presentate le prime proposte di legge attuative dell’articolo 46, incentrate in larga maggioranza sull’azionariato o la distribuzione degli utili, mai approvate) l’affermazione di logiche partecipative è stata ostacolata dalla stagnazione salariale e dalla linearità del mercato del lavoro, ancora poco attento alle competenze e bisognoso di lavoratori “standard”, operai e impiegati esecutori.

Oggi, nel pieno della quarta rivoluzione industriale, i lavoratori e i luoghi di lavoro non sono più quelli degli anni Settanta: il livello di istruzione si è alzato; le tecnologie 4.0 sono diventate condizione necessaria; la legislazione, seppure a fatica, sta perdendo la sua connotazione “a misura di fabbrica”; non esistono (potenzialmente) confini nel commercio globale; la rassicurante sequenza di istruzione-lavoro-pensione è stata sovvertita da una sempre più diffusa discontinuità lavorativa e contrattuale. Il lavoratore, ancor più che in passato, ha bisogno di essere protagonista per non scoprirsi alienato, per non subire la modernità. Dal canto suo, la stessa impresa ha bisogno del coinvolgimento dei dipendenti per continuare a migliorare prodotti, processi, ambienti di lavoro.

La legge 15 maggio 2025 n. 76 sulla partecipazione dei lavoratori all’impresa rappresenta un passaggio epocale. Segna un discrimine tra un “prima” e un “dopo” il modello della distribuzione del reddito e del controllo esterno della produttività che ha caratterizzato l’Ottocento e il Novecento, l’epoca delle rivoluzioni industriali. Un modello che aveva una propria funzione storica, da cui è nato anche il welfare, ma che oggi non funziona più. Le nuove tecnologie lo rendono obsoleto, incapace di finanziare previdenza e prestazioni sociali e inadeguato a governare le grandi transizioni in corso: digitale, ambientale e demografica. La tradizionale conflittualità tra i fattori della produzione non è più la chiave per regolare economia e società. La “cassetta degli attrezzi” usata negli ultimi due secoli va, dunque, ripensata. La parola chiave diventa “partecipazione”. Una chiave straordinaria, perché l’intero assetto economico e sociale che conosciamo – figlio delle rivoluzioni industriali-, oggi si manifesta come inadeguato.

La legge sulla partecipazione, nata come proposta popolare della CISL e poi fatta propria dall’attuale maggioranza, dà finalmente attuazione all’articolo 46 della Costituzione e introduce un cambiamento culturale prima che tecnico. Il salario fisso in cambio del controllo esterno della produttività non è più lo schema in grado di garantire efficienza e sviluppo. Serve un modello in cui il lavoro, al pari del capitale, partecipi alla distribuzione dei guadagni di produttività. Un’immagine potente di questo paradigma viene dalla letteratura. L’incipit di Moby Dick descrive il sistema della baleniera Pequod, comandata da Achab: un’organizzazione fondata sulla partecipazione, in cui ogni marinaio riceve una “pertinenza”, ovvero una quota del prodotto netto pescato. Un sistema che non discrimina e che è mirabilmente basato su merito, trasparenza e produttività. Ecco il punto: il futuro della nostra economia e della nostra democrazia dipende dalla capacità di passare dal modello novecentesco al paradigma partecipativo.

Un ruolo primario è riconosciuto non soltanto al singolo lavoratore, ma alle parti sociali tutte. Le grandi crisi dell’ultimo quarto di secolo, lungi dal segnare la fine delle relazioni industriali, hanno al contrario dimostrato l’efficacia della contrattazione e, con essa, proprio della partecipazione. Ne sono esempi evidenti l’introduzione del DURC nel 2002, gli accordi di cassa integrazione durante la crisi del 2011-2014, la sottoscrizione nel 2020 dei protocolli COVID per la ripresa del lavoro in sicurezza.

Già nel Protocollo Ciampi del 1993 si realizzò quel meccanismo di partecipazione dei sindacati alle decisioni di politica economica più volte suggerito nei saggi di Ezio Tarantelli, concretizzato (otto anni dopo il suo assassinio) attorno allo scambio tra contenimento dei salari per l’ingresso nella moneta unica e apertura del Governo al confronto in materia di politica dei redditi e dell’occupazione, politiche del lavoro e sostegno al sistema produttivo (la parte del Protocollo rimasta però sulla carta). Oggi, in una situazione profondamente diversa, occorre completare il disegno di Ezio Tarantelli nella direzione individuata da Gino Giugni nel 1997 (Commissione per la verifica del Protocollo del 23 luglio 1993) e da Marco Biagi nel 2001 (Libro Bianco), investendo sul decentramento contrattuale per incrementare i salari nelle aziende più produttive e competitive, rigettando quell’egualitarismo centralista che ha finito per portare il nostro Paese nel paradosso della crescita occupazionale senza crescita economica, con bassi salari e bassa produttività.

È, dunque, evidente perché la novità più significativa dell’anno parlamentare appena trascorso risieda nell’approvazione della legge 76. Un atto che segna un cambio di passo: affida, infatti, a imprese e a sindacati il compito di definire – su base volontaria – forme di partecipazione gestionale, economico-finanziaria, organizzativa e consultiva, calibrate sulle diverse realtà attraverso la contrattazione collettiva. Una cornice regolatoria di primo livello e l’attuazione concreta di secondo livello che superano la vecchia contrapposizione tra capitale e lavoro, aprendo la strada a un modello più collaborativo. Il 7 agosto si è insediata al CNEL la Commissione nazionale permanente per la partecipazione dei lavoratori, prevista dall’articolo 13 della legge. Con la designazione dei 17 membri – sei indicati dalle associazioni datoriali, sei dai sindacati, tre esperti tecnici, un rappresentante nominato dal Ministero del Lavoro e uno dal CNEL – e con l’elezione del Presidente, la legge è diventata pienamente operativa. Ora l’intera assemblea del CNEL si prepara a monitorare in tempo reale la diffusione del metodo partecipativo nel tessuto produttivo e dei servizi italiani, a proporre correttivi normativi e, soprattutto, a accompagnare le imprese nel cogliere le potenzialità di quello che si annuncia come un vero e proprio cambio di paradigma reso possibile grazie alla partecipazione.

 

La rivoluzione concettuale realizzata con l’approvazione della legge va però ben oltre la sola dimensione lavoristica. Certamente è guidata dalla convinzione che solo per il tramite di una maggiore «partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese» (è questa la significativa rubrica della legge) sia possibile una migliore distribuzione della ricchezza, a partire da dove è generata; l’incremento della competitività delle imprese e la loro capacità di attrarre i talenti in un momento di inedita crisi dell’offerta di lavoro; il contrasto ai processi di delocalizzazione industriale; la capacità di attrarre investimenti esteri sul territorio. La nuova filosofia partecipativa deve interessare anche la crescita delle retribuzioni, il rapporto con l’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie, la sostenibilità del Welfare State. In sintesi: interessa la tenuta economico-regolativa del nostro sistema democratico e la sua tenuta sociale.

La priorità di ogni politica del lavoro di oggi è la crescita delle retribuzioni realizzata mediante una efficiente, equa e inclusiva distribuzione della maggiore produttività realizzata. Non solo le retribuzioni minime, ma soprattutto quelle medie, che non avrebbero alcun vantaggio dall’approvazione di soglie salariali legali “di riserva” utili a legittimare trattamenti retributivi contenuti (cioè largamente inferiori al valore aggiunto generato) quando superiori ai minimi, come accade in molti settori produttivi. Dal 1993 ad oggi in nessun altro principale Paese del mondo si è osservata una perdita di potere d’acquisto dei salari similare a quella italiana. Solo negli ultimi quindici anni la diminuzione è stata dello -8,7%, a fronte del +5% francese o del +15% tedesco (Ilo, 2025). Più occupazione, meno produttività e minori salari: i nuovi posti di lavoro domandati dalle imprese sono quindi a ridotto valore aggiunto e rivolti a personale con competenze contenute, inquadrate in livelli medio-bassi. In altri termini: le imprese italiane, considerato il fattore lavoro più conveniente del capitale (si pensi alla recente stagione inflazionistica, che ha elevato i tassi di credito) e più conveniente dell’investimento tecnologico (che avrebbe bisogno di un sistema scolastico e universitario capace di formare personale in grado di valorizzare l’adozione di sistemi informatici e di robotica evoluti), hanno deciso di gestire la crescita della domanda di beni e servizi post-pandemica incrementando i dipendenti invece che innovando i processi. Può apparire una buona notizia (la conseguenza è maggiore occupazione), ma è una situazione pericolosa per il futuro del nostro Paese, che resta un campione della manifattura e un leader mondiale della cultura e del turismo. Rischiamo di rimanere incastrati in una “crescita povera” che espone tanto le imprese, quanto i lavoratori, alla variabilità del mercato, senza attrezzare le aziende con la tecnologia che permette di competere tra i primi, invece che vivacchiare gli ultimi, e fortificare i lavoratori con le competenze che permettono di garantirne l’occupabilità ben di più di qualsiasi articolo 18. Occorre perciò crescita dei redditi e della produttività, che vuole dire incremento dei consumi, riattivazione della domanda interna, stimolo alla crescita delle imprese e delle famiglie (anche in senso demografico). La partecipazione dei lavoratori a livello aziendale per incrementare i salari medi ha questo ultimo scopo: più produttività, migliore remunerazione del lavoro, più formazione, più welfare.

L’Italia è «una Repubblica fondata sul lavoro» anche per quanto concerne le tutele sociali riconosciute alle persone, pagate dai contributi di chi lavora regolarmente. Il nostro welfare è finanziato dal lavoro, dal quale derivano sicurezza, assicurazione degli incidenti sul lavoro, tutele per lavoratrici madri e lavoratori padri, sussidi per affrontare i periodi di disoccupazione e sostentamento per la vecchiaia. È di tutta evidenza l’impatto della transizione demografica (che determinerà un numero minore di lavoratori, quindi contribuenti, anche allorquando fossero più elevati i tassi di occupazione) e della discontinuità lavorativa (che interessa soprattutto i giovani) sul nostro sistema di tutele sociali e pensionistiche. Il sistema di welfare che conosciamo non può più basarsi sull’equazione centrata sugli attivi di oggi che pagano per gli attivi di ieri: non regge più il sistema a ripartizione, non regge la contribuzione sul lavoro. In altre parole, volente o nolente deve essere messo in discussione il modello tradizionale prodotto dal Novecento.

In ragione della dimensione delle sfide solo brevemente delineate, che riguardando i pilastri di qualsiasi moderno Stato (salari, occupazione, previdenza, tecnologia), ha ragione chi segnala l’opportunità di un nuovo, grande, accordo interconfederale partecipativo per rilanciare la contrattazione di secondo livello, attivare l’intelligenza di prossimità delle relazioni industriali, permettere la compensazione della “scomodità” del lavoro, affermare un moderno diritto alle competenze. L’incombenza è quella di passare da una politica di appiattimento dei redditi in ragione di un’anacronistica centralizzazione delle politiche salariali a una politica per la crescita dei redditi tramite il protagonismo dei lavoratori nella gestione delle imprese.

Stiamo assistendo all’ultimo round di una competizione quasi “biologica” tra il paradigma salariale standard che conosciamo da duecento anni e un nuovo modello partecipativo. Due sistemi che competono in ragione delle transizioni, cioè in ragione della capacità di gestire nel modo più efficiente (ma anche equo e inclusivo) le grandi transizioni demografica, energetica, ambientale e del welfare: insomma, il futuro del nostro sistema di regole.

La posta “in gioco” è altissima: non riguarda soltanto il futuro delle imprese o del lavoro, ma la stessa tenuta della democrazia. Basti pensare alla transizione digitale senza partecipazione, o a quella demografica e al peso che esercita sul welfare. Il sistema novecentesco è superato. Eppure, abbiamo un’occasione storica. Come nel 1943, quando i professori di Camaldoli tracciarono le fondamenta della Costituzione sociale, oggi serve il coraggio di mettere in discussione due secoli di storia, riscoprendo il personalismo che rende ancora oggi attuale e originale la nostra Carta: «se risponde alla natura dell’uomo unirsi quale membro attivo nell’organismo sociale, risponde pure all’essenza della società non assorbire l’uomo fino ad annullarlo; ma la sua ragion d’essere sta nel creargli l’ambiente migliore per il suo perfezionamento integrale».”

*Il seguente articolo è stato pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 23 agosto 2025

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