Welfare bilaterale e welfare aziendale: un preoccupante dualismo normativo

da Gen 22, 2019Studi e approfondimenti

di Maria Sole Ferrieri Caputi, Emmanuele Massagli*

Ha lasciato più di qualche dubbio la Risposta n. 24 del 4 ottobre 2018. L’intervento dell’Agenzia dell’Entrate, chiamata ad esprimersi in merito al trattamento fiscale e contributivo applicabile alle somme erogate dal datore di lavoro “per conto” dell’ente bilaterale, è diventato l’occasione per affrontare il nodo del regime fiscale e contributivo delle misure erogate dagli enti bilaterali.

Se infatti la risposta al quesito risulta pacifica tra gli addetti ai lavori (non rileva il fatto che le prestazioni erogate dagli enti bilaterali siano o meno corrisposte ai lavoratori direttamente o mediante l’azienda, essendo questa una mera modalità organizzativa) l’Agenzia, articolando ulteriormente il proprio parere, ha rivolto la sua attenzione anche alla disciplina fiscale da applicare alle misure specifiche oggetto dell’interpello: il premio per la nascita del figlio, il contributo per malattia o per infortunio, l’iscrizione al nido/materna e alla scuola secondaria di primo grado e il permesso ex legge n. 104/1992.

In particolare, come evidenziato dal contributo M.S. Ferrieri Caputi, Welfare bilaterale, dall’ente al lavoratore passando per l’azienda. La posizione (problematica) dell’Agenzia delle Entrate (Risposta n. 24/2018), appare quanto meno anacronistico e contradittorio, rispetto alla recente disciplina sul welfare aziendale, che le somme erogate dall’ente per l’iscrizione al nido/materna e alla scuola secondaria di primo grado risultino assimilate ai redditi da lavoro dipendente, ai sensi dell’art. 50, comma 1, lettera c), del TUIR  e, al contrario, venga riconosciuta la non rilevanza ai fini fiscali delle somme erogate per il premio per la nascita del figlio, per il contributo per malattia o per infortunio e per il permesso per la legge n. 104 del 1992.

Relativamente alle somme erogate dall’ente per l’iscrizione al nido/materna e alla scuola secondaria di primo grado, è proprio il richiamo dell’Agenzia all’art. 50, comma 1, lettera c), del TUIR a non convincere. Da un lato, secondo tale norma «le somme erogate da chiunque corrisposte a titolo di borsa di studio o di assegno, premio o sussidio per fini di studio o di addestramento professionale, a un beneficiario che non è legato da rapporti di lavoro dipendente nei confronti del soggetto erogante» devono essere assimilate ai redditi da lavoro dipendente. Dall’altro, proprio la stessa Agenzia delle Entrate con la Circolare 326/E del 1997aveva precisato che: «[…] costituiscono reddito di lavoro dipendente tutte le somme e i valori (intendendo con tale espressione la quantificazione dei beni e dei servizi) che il dipendente percepisce nel periodo d’imposta, a qualunque titolo, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro, e, quindi, tutti quelli che siano in qualunque modo riconducibili al rapporto di lavoro, anche se non provenienti direttamente dal datore di lavoro» (paragrafo 2.1).

Il caso delle somme erogate dall’ente per l’iscrizione al nido e alla materna è particolare perché specifica è la disposizione dell’art. 50, comma 1, lettera c del TUIR in merito alla tipologia delle borse di studio. Supponiamo diversamente, allora, che tra le prestazioni dell’ente bilaterale si prevedano altri servizi quali, ad esempio, quelli rivolti a genitori anziani o non-autosufficienti (anch’essi previsti dalla lettera f-ter, comma 2, art. 51 del TUIR). Quale regime si applica? Partendo da questo spunto, il quesito che ci poniamo è se sia possibile far rientrare le erogazioni dell’ente bilaterale nel campo di applicazione dei commi 2 e 3 dell’art. 51 e dei relativi benefici fiscali, a condizione che siano rispettati i requisiti individuati dalle disposizioni in materia.

Innanzi tutto, dunque, occorre capire se le somme erogate dagli enti bilaterali possano essere riconducibili al rapporto di lavoro. Invero apparirebbe quanto meno illogico sostenerne la non riconducibilità. Sul punto può essere utile richiamare la nota Circolare del Ministero del Lavoro n. 43 del 2010, che ha chiarito l’obbligatorietà da parte del datore di lavoro, che per legittima e libera scelta non volesse aderire e contribuire all’ente bilaterale previsto contrattualmente, di dover corrispondere direttamente ai lavoratori prestazioni equivalenti a quelle erogate dagli enti bilaterali (per un approfondimento si veda M. Tiraboschi, Bilateralismo e enti bilaterali: la nuova frontiera delle relazioni industriali in Italia, 2013). Questa previsione non lascia dubbi sulla riconducibilità delle misure erogate dall’ente bilaterale al rapporto di lavoro, tanto che in caso di mancato versamento da parte dell’azienda il lavoratore avrebbe riconosciute direttamente da questa le prestazioni sostitutive equivalenti.

Un secondo aspetto riguarda il ruolo dell’ente bilaterale nell’erogazione di tali servizi. Come evidenziato dallo stesso contributo di M. Tiraboschi (2013): «una volta riconosciuto da parte del contratto collettivo che una determinata prestazione […] rappresenta un diritto contrattuale del lavoratore, l’iscrizione all’ente bilaterale si configura come una modalità per adempiere al corrispondente obbligo del datore di lavoro». Se quindi le prestazioni degli enti bilaterali trovano una fonte obbligatoria nella contrattazione collettiva e l’iscrizione all’ente bilaterale si configura come una modalità organizzativa per l’erogazione di tali prestazioni, ci sono margini per ritenere che, per tipologie di misure rientranti in quelle incluse nei commi 2 e 3 art. 51 del TUIR nel rispetto di modalità di erogazione da parte dell’ente bilaterale e/o requisiti di tipo organizzativo dell’ente stesso coerenti con la normativa in materia, si possano applicare i benefici in materia di welfare aziendale e contrattuale.

Per fare un esempio: all’ente bilaterale potrebbe essere rinviata la gestione di un fondo ad hocdestinato al finanziamento di misure di welfare (art. 51, commi 2 e 3 del TUIR) le cui regole di accesso e i cui destinatari sono individuati dalla contrattazione collettiva o dagli organi dell’ente stesso. Quest’ultimo assumerebbe legittimamente le sembianze di un provider qualificato che, da un lato, gestisce ed eroga per conto delle imprese le misure di welfare aziendale, mentre, dall’altro, può contribuire a definire le tipologie di welfare a cui destinare le risorse, in coerenza con il ruolo che gli è riconosciuto dalle parti. In coerenza con la normativa, le modalità di erogazione potrebbero dunque essere quelle della voucheristica rappresentativa di beni e servizi[1] e/o del rimborso delle spese sostenute. In forza delle stesse disposizioni, sarebbe invece vietato (o meglio, non permetterebbe la non ricomprensione nel reddito da lavoro) il trasferimento monetario, che è la modalità di gran lunga più diffusa, attualmente, nei trasferimenti tra enti bilaterali e lavoratori.

Già la Legge Biagi aveva previsto la competenza degli enti bilaterali nell’erogazione di prestazioni riconducibili al welfare prevendendo le misure d’integrazione al reddito tra l’elenco delle funzioni strategiche di questi soggetti (art. 2 lett. h, d.lgs. n. 276 del 10 settembre 2003[2]). Il provvedimento ha inoltre aperto a ulteriori possibili ambiti di intervento, non ponendo particolari limiti, se non quelli previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Quest’ultima, dunque, può assumersi la facoltà di ampliare le tradizionali materie di interesse del c.d. welfare bilaterale, nonché di riprogettarne un’articolazione che sfrutti, anche in chiave più moderna, tutte le opportunità apertisi negli ultimi anni dopo gli interventi di riscrittura del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR).

È doveroso dedicare una ultima riflessione allo sfavore fiscale che, dopo la riforma del welfare aziendale del 2016, interessa le erogazioni sociali degli enti bilaterali. Secondo le regole attuali, anche alla luce della risposta della Agenzia, il passaggio azienda-ente bilaterale–lavoratore è soggetto a una doppia tassazione e contribuzione: la prestazione è infatti da considerarsi “reddito da lavoro” sia al momento del versamento dall’azienda all’ente bilaterale, sia al momento dell’erogazione della prestazione al dipendente, salvo i casi in cui le prestazioni non siano riconducibili nelle categorie reddituali previste dall’art. 6 del TUIR. Non vi è alcun riconoscimento in merito alla equiparabilità, dal punto di vista fiscale e contributivo, tra welfare bilaterale e welfare aziendale, anche allorquando questi prevedano le stesse prestazioni.

Non essendo obbligatoria l’iscrizione delle aziende agli enti bilateralila diversa disciplina fiscale potrebbe generare una inedita situazione di debolezza per la bilateralità poiché un datore di lavoro, tanto più se strutturato e con molti dipendenti, potrebbe scegliere, opportunisticamente o ideologicamente, di non iscriversi all’ente per assolvere l’obbligo contrattuale, bensì di utilizzare un piano di welfare aziendale unilaterale per riconoscere le stesse prestazioni, ma a costi contributivi decisamente più contenuti.

Anche per questo appare auspicabile un intervento interpretativo che disinneschi l’effetto concorrenziale tra welfare bilaterale e aziendale.  Non si può infatti non cogliere i rischi che un tale dualismo, in materia di prestazioni di welfare, può avere sull’adesione al sistema della bilateralità, che invece dovrebbe diventare uno dei canali principali (se non “il” canale principale) perfavorire una maggiore diffusione e capillarità del welfare nelle piccole e medie imprese, in particolare nei settori a più alta densità di micro e piccola impresa (che sono anche gli stessi nei quali la bilateralità è più diffusa).

 

*Pubblicato su Bollettino ADAPT, il 21 gennaio 2019, n. 3

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