Un patto tra aziende e dipendenti verso un nuovo welfare aziendale

da Gen 22, 2018Studi e approfondimenti

Intervista ad Alberto Perfumo e Cesare Concina

Amministratore Delegato e Consulting & Research Manager di Eudaimon

di Chiara Lupi*

In queste pagine ci confrontiamo con i fondatori di Eudaimon, la società che per prima – a partire dagli inizi degli Anni 2000 – ha portato in azienda la cultura del benessere delle persone. Allora il termine ‘welfare aziendale’ non esisteva, si parlava di people care, conciliazione; mentre oggi, anche a valle dei provvedimenti delle ultime due leggi di Stabilità, fare ‘welfare’ è diventato un imperativo. Ma siamo certi di averne compreso il significato? Occuparsi delle persone e del loro benessere significa per le aziende esprimere un valore etico che travalica i confini della convenienza economica e ha un impatto sulle persone e sulle loro famiglie, sul territorio e sulla comunità. Per questo è urgente spostare l’attenzione dal beneficio economico dei singoli – persone e aziende – alla crescita e allo sviluppo dei nostri ecosistemi.

Eudaimon: partiamo dal nome, suggerito da uno zio che, da ecclesiastico, ha attinto alla cultura classica per dare un significato all’idea imprenditoriale del nipote. Tradurre eudaimonia con il sostantivo felicità è riduttivo, il campo semantico del termine greco è molto più ampio. L’etimologia ci rimanda al concetto di ‟essere in compagnia di un buon daimon”, una sorta di spirito guida un antenato pagano dell’angelo custode che ci accompagna. Il significato che oggi possiamo attribuire al termine eudaimonia comprende la sfida di assumersi la responsabilità di agire bene, nell’interesse del bene collettivo. La felicità è intesa come tensione etica verso un bene comune. A partire da questi concetti sviluppiamo un ragionamento sull’evoluzione del welfare aziendale e sulla potenza del suo impatto sociale. Alberto Perfumo e Cesare Concina, che hanno portato Eudaimon a essere considerato uno dei provider più accreditati in ambito di welfare aziendale, hanno altre storie imprenditoriali alle spalle: consulenti di organizzazione, processi e sistemi informativi, erano titolari di un’azienda acquisita da Siebel, passata poi nelle mani di Oracle. Il desiderio di dar vita a un nuovo progetto resta vivo e, a partire dalle loro competenze, emergono le prime riflessioni sull’evoluzione degli assetti organizzativi. Nell’ipotesi che organizzazione, processi e sistemi siano ben presidiati e governati, come intervenire affinché le persone siano portatrici di un valore distintivo? Se ogni giorno le persone ‘indossano’ la maglietta dell’azienda e danno un contributo di passione e professionalità, l’organizzazione può amplificare i suoi percorsi di successo. Come si innesca questo coinvolgimento? Ci sono condizioni al contorno di tipo ‘igienico’, come le definisce Perfumo, tra cui retribuzioni adeguate e formazione opportuna. Se tutto questo è ben gestito bisogna dimostrare attenzione alle persone. Il punto è svincolarsi dallo scambio commerciale di tempo e competenze per denaro al fine di sviluppare un reciproco scambio di attenzione. E assecondare le esigenze della vita personale e familiare può essere un buon inizio. L’attività di Eudaimon parte da queste riflessioni. Il progetto desta fin dal 2003 l’interesse di grandi aziende, da Tim, fino a Nokia e Ferrari. Realtà che già avevano intuito le potenzialità di questa idea imprenditoriale e avevano chiaro che, per rispondere alle esigenze delle persone, era necessario andare oltre le analisi di clima standard. Certo, non tutte le aziende erano pronte ad avviare progetti concreti, ma i due imprenditori si sono rivelati dei pionieri; tant’è che si è dovuto attendere il 2009 perché si affacciassero sul mercato i primi competitor.

Welfare: la necessità di una accelerazione

Nel giro di un decennio il welfare aziendale si è trasformato, come ha scritto Franca Maino in un capitolo del manuale Welfare aziendale, tra dimensione organizzativa e cura della persona, da strumento di sostegno ai lavoratori in una fase di crisi e arretramento del welfare pubblico, in sistema per soddisfare le esigenze dei collaboratori: si tratta di una questione ‘organizzativa’ e ‘sociale’, ovvero di cura delle persone e delle loro famiglie. Importante inquadrare il contesto: le modalità di spesa, legate al welfare, stanno cambiando per effetto di fenomeni potenti che vanno gestiti, tra cui cambiamento demografico, internazionalizzazione del lavoro e migrazione delle persone. Il welfare che conosciamo fatica a evolvere con la stessa velocità dei cambiamenti sociali. Si avverte un’esigenza di accelerazione e il secondo welfare, che vede operare soggetti profit e no profit, è in grado di dare risposte più efficaci. Poi ci sono le trasformazioni che stanno investendo il mondo produttivo: la quarta rivoluzione industriale porta con sé il rischio di ‘lasciare indietro’ i soggetti deboli, chi non ha competenze adeguate, la popolazione degli ultracinquantenni e tutti coloro che lavorano in ambiti che più sono impattati dalla Digital transformation. Si profila la necessità di un nuovo modello di partecipazione: la spesa pubblica non basta più ed entrano in scena privati, fondazioni, terzo settore. Dobbiamo ragionare in termini di una nuova alleanza e il secondo welfare può rappresentare un’opportunità, a patto di comprenderne il significato perché il welfare, di per sé, non è una panacea per risolvere le molte distorsioni del nostro sistema. Ma lo può diventare se opportunamente sviluppato. Partiamo da qui.

Il secondo welfare è importante per la sopravvivenza del Paese e si configura come strumento per rafforzare un patto sociale.

Alberto Perfumo: Innanzitutto è importante comprendere come stanno, oggi, i lavoratori italiani, quale la loro situazione sociale. Per questo Eudaimon ha condotto con il Censis una ricerca che verrà presentata il 24 gennaio a Roma a Palazzo Giustini. Negli ultimi 10-15 anni lo scenario si è evoluto. Da strumento per motivare le persone oggi il welfare aziendale può rappresentare uno strumento di innovazione sociale. Dico ‘può’, perché un po’ di strada è stata fatta e il momento è delicato. L’evoluzione della normativa degli ultimi anni ha spinto nella giusta direzione ma, attualmente, siamo ‘appesi’ al testo unico dell’imposta sui redditi, una norma fiscale. La fiscalità agevolata non ci aiuta a introdurre nuove interpretazioni; l’obiettivo è far rientrare il welfare aziendale all’interno delle politiche industriali; tuttavia un’accelerazione repentina ha portato un po’ di incertezza e il nostro settore è oggi abbastanza confuso, in termini di obiettivi e di contenuti.

Ci spiega meglio?

A.P.: C’è confusione rispetto agli obiettivi perché l’accento è stato posto tutto sugli aspetti di convenienza fiscale e contributiva. Oggi il rischio è interpretare il welfare aziendale come strumento per risparmiare sul costo del lavoro e questo non consente di superare quelle ‘condizioni igieniche’ di cui parlavamo in apertura. Il welfare aziendale è uno strumento di ingaggio delle persone e il ritorno è tangibile misurabile, consente un beneficio che è sette volte più grande del semplice risparmio fiscale, come abbiamo misurato con il nostro Life@Work Index. Inoltre, va considerato il tema dell’impatto che ha su tutti gli stakeholder, quindi su responsabilità d’impresa e innovazione sociale.

Secondo l’Eurostat, nel 2014 la spesa sociale del nostro Paese è stata pari al 29,9% del Pil e l’Italia è battuta solo da Danimarca, Francia e Finlandia e spende addirittura più della Svezia (29,5%).

A.P.: Stiamo spendendo risorse in maniera conforme al vecchio modello di welfare pubblico del nostro Paese, che poggiava su un forte coinvolgimento della famiglia, a partire dalle figure femminili: negli Anni 60 e 70 si faceva affidamento sul fatto che la donna curasse figli e genitori anziani. Ma la famiglia si è evoluta sotto la spinta demografica e sociale e oggi un welfare, che continua a rispondere con le stesse modalità, supporta bene alcune categorie, ma lascia aperte delle voragini rispetto a categorie che erano oggetto di cure da parte di persone che oggi hanno ruoli differenti. Ai bambini piccoli, parenti anziani non autosufficienti, disabili, il nostro Paese dedica somme irrisorie rispetto a quanto speso per altri capitoli. La suddivisione di questa spesa non è equilibrata.

Con un debito pubblico al 132,6% del Pil e con i vincoli di finanza pubblica è difficile che le risorse del primo welfare possano aumentare.

Cesare Concina: Vero. Dovremmo aver chiaro cosa sta accadendo nel nostro Paese sapendone valutare le conseguenze. Abbiamo 12 milioni di persone che nell’ultimo periodo hanno rinunciato ad almeno un intervento di cura. Questi sono i dati dai quali partire per sviluppare i ragionamenti sul welfare.

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Continua a leggere l’intervista su Sviluppo&Organizzazione

*Il seguente articolo è stato pubblicato su ESTE – Sviluppo&Organizzazione, Elite allo specchio di dicembre 2017

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