Rapporto Censis-Eudaimon, welfare aziendale tra opportunità e rischi

da Gen 29, 2018Studi e approfondimenti

*Il seguente articolo è stato pubblicato su Benessereogrg.it, il 26 gennaio 2018

ll welfare aziendale in Italia ha davanti potenzialità di sviluppo enormi, con un ruolo di primo piano accanto al welfare pubblico. Potrebbe però anche allargare la forbice delle disuguaglianze oppure degradarsi in un’offerta indifferenziata lontana dai bisogni veri delle persone. È lo scenario di opportunità e rischi disegnato nel Primo rapporto sul Welfare Aziendale realizzato da Censis ed Eudaimon e presentato il 24 gennaio 2018 a Roma, partendo da una proiezione che dà il senso della grandezza di questa sfida: se tutti i dipendenti del settore privato godessero di welfare aziendale, questo raggiungerebbe un controvalore complessivo di 21 miliardi di euro, quasi una mensilità di stipendio in più all’anno per ciascuno

 

Manca ancora una cultura sul welfare

A oggi, però, solo il 17,9% dei lavoratori italiani sa precisamente cos’è il welfare aziendale, il 58,5% lo conosce per grandi linee, il 23,6% lo ignora. La conoscenza è più scarsa tra i meno scolarizzati (il 47% di quelli con al più la licenza media non sa cos’è), quelli con redditi bassi (44,6%), i genitori single(40,3%), gli occupati con mansioni esecutive e manuali (36,7%), le lavoratrici (30,1%). Il fatto che sia favorevole al welfare aziendale il 74,4% di chi lo conosce in modo preciso rispetto al 43,3% rivela l’urgenza di un’informazione capillare.

Il 58,7% dei lavoratori è favorevole alla trasformazione in welfare dei premi di risultato, mentre il 23,5% è contrario e il 17,8% non ha una opinione in merito. A essere più orientati allo scambio sono i dirigenti e i quadri (73,6%), i lavoratori con figli piccoli, fino a tre anni (68,2%), i laureati (63,5%), i lavoratori con redditi medio-alti (62,2%). Meno favorevoli gli operai, i lavoratori esecutivi e quelli con redditi bassi. Tra gli operai (41,3%) e gli impiegati (36,5%) sono più elevate le quote di lavoratori che preferiscono avere più soldi in busta paga invece che soluzioni di welfare.

Non si può pensare, però, sottolineano i ricercatori, che il welfare aziendale possa essere un’alternativa agli aumenti salariali per gli occupati a basso reddito. In Italia vivono in povertà assoluta quasi 600mila famiglie operaie, cresciute del 178% tra il 2008 e il 2016. Quando sono composte da madre, padre e due figli minori hanno a disposizione al massimo 1.400 euro al mese, soglia che si abbassa a  680 euro per i single. La defiscalizzazione, che oggi è la principale leva di crescita del welfare aziendale, favorisce però chi guadagna di più anziché chi guadagna meno e ha più bisogni sociali. Il welfare aziendale diventa così un premio in proporzione al reddito e non un supporto per chiunque abbia bisogno.

Le prestazioni più richieste dai lavoratori sono quelle legate alla sanità (indicate dal 53,8% degli occupati) e alla previdenza integrativa (33,3%), cioè welfare propriamente detto. Seguono buoni pasto e mensa aziendale (31,5%), trasporto da casa al lavoro (23,9%), buoni acquisto e convenzioni con negozi(21,3%), quindi asilo nidocentri vacanzerimborsi per le spese scolastiche dei figli (20,5%), che però sono al primo posto delle preferenze per il 24,6% delle famiglie con figli minori, evidentemente non supportate dal pubblico.

Il 47,7% dei lavoratori, infine, è favorevole al welfare aziendale perché è convinto che migliori il clima in azienda, il 16,8% perché fa aumentare la produttività dei lavoratori. Anche qui, però, c’è il solito gap, con dirigenti e occupati con alti redditi che percepiscono quegli effetti positivi sul clima aziendale molto più degli operai e dei lavoratori con bassi redditi.

“Pilastro aggiuntivo di protezione sociale”

“Siamo in una fase in cui il welfare pubblico sta arretrando e i pilastri complementari come il welfare aziendale possono dare un contributo e restituire sicurezza agli italiani, ma è fondamentale che non abbiano al loro interno un meccanismo divisorio”, ha sottolineato Francesco Maietta, Responsabile dell’Area Politiche sociali del Censis. “Bisogna ampliare la copertura per mutualizzare il rischio e fare così in modo che le persone non restino sole di fronte al bisogno. Con una redistribuzione sull’insieme dei lavoratori l’impatto non potrà che essere positivo”.

La dicotomia di percezioni e scelte che si registra tra lavoratori ad alto e a basso reddito-livello è, secondo Maietta, “l’esito di una situazione di contesto”. “C’è intanto una fame arretrata di redditoevidente nei dati, ma se i redditi sono bassi è un problema di politiche retributive, il welfare aziendalenon può sostituirle, deve invece contribuire alla copertura dei bisogni. Storicamente, poi, il meccanismo premiale fa sì che il welfare aziendale sia più conosciuto e apprezzato dai livelli più alti, ma a questo si può porre riparo purché si punti a farne un pezzo del welfare complessivamente inteso”.

“Dopo questi anni di crisi, gli italiani vivono l’assunzione del rischio come un azzardo, non percepiscono più la protezione sociale come garante delle proprie avventure personali e invece la cultura del rischio è fondamentale per ripartire. È in questo nuovo paradigma che dobbiamo trovare una risposta”, ha commentato Massimiliano Valerii, Direttore Generale del Censis. “L’innovazione normativa ha spinto il decollo del welfare aziendale, ma è importante non tradire la sua natura di pilastro aggiuntivo di protezione sociale: né un cavallo di troia per rompere l’universalismo del welfare pubblico, né una mera elargizione da paternalismo patronale”.

“Serve conoscenza e rispondere ai bisogni veri”

 
Alberto Perfumo, Amministratore Delegato di Eudaimon

Alberto Perfumo, Amministratore Delegato di Eudaimon, a insistito sulla necessità di creare una cultura del welfare aziendale in Italia: “C’è un deficit diffuso tra imprese, lavoratori e anche negli organi di rappresentanza tema della mutualità”. Poi sul tema della mutualità ha aggiunto: ”Se sul welfare aziendale si riproponessero le stesse logiche della retribuzione, non si farebbe che ampliare le differenze tra gli individui: chi ha basso reddito ha anche un welfare piccolo e questo indipendentemente dai bisogni, e cioè dal fatto che possa avere, per esempio, determinati carichi di cura o problemi di salute. Questo non può succedere, tanto meno nel momento in cui il welfare aziendale deve giocare la sua potenzialità, cioè davvero integrare il welfare pubblico”.

“Oggi l’aumento di produttività è l’argomento che traina maggiormente il settore, ma c’è il rischio di dimenticare la copertura dei bisogni sociali dei lavoratori”, ha avvertito Perfumo. “Se il welfare aziendale diventasse soltanto strumentale alla produttività ed evolvesse verso un mercato di benefit indistinti, ne perderemmo senso più vero”. Questo rischio di downgrading è favorito dal boom del settore e dalle agevolazioni generalizzate: “Ogni giorno arriva sul mercato un nuovo operatore, l’offerta cresce più della domanda e le aziende pagano meno di ieri, così i provider fanno business sui fornitori: a garantire margini maggiori sono prestazioni ricreative e buoni acquisto, che non sono vero welfare, ma rientrano comunque nelle agevolazioni”.

“Stiamo passando da un welfare di natura esclusivamente pubblica a un welfare di comunità con una pluralità di attori: istituzioni nazionali e locali, welfare aziendale, terzo settore e famiglie, che con la spesa privata hanno modificato profondamente la composizione dei servizi di cura”, ha detto il Sottosegretario al Lavoro Luigi Bobba. ”In questa prospettiva, l’emersione del welfare aziendale va incardinata in un’ottica di inclusività, per evitare che sempre più persone, di fronte a un imprevisto personale di salute o di lavoro, precipitino nella vulnerabilità sociale. Anche gli interventi normativi sul welfare aziendale devono quindi spingere sulla risposta ai bisogni più sentiti dalle famiglie”.

Strumento per far partecipare le persone

“Dopo tanto caos creativo nel welfare aziendale, con incentivi per qualunque tipo di prestazione, è arrivato il momento di mettere un po’ di ordine. Le imprese sono chiamate a essere solidali, ma allora la politica deve offrire un disegno chiaro, con il welfare pubblico che pensa alle necessità e invece il welfare prima contrattuale e poi aziendale che pensa ai bisogni, più soggettivi”, ha sottolineato Pierangelo Albini, Direttore dell’Area Lavoro, Welfare e Capitale Umano di Confindustria. “Bisogna anche riflettere sul grande contributo che ti può dare la persona nel momento in cui collabora con l’azienda. In Italia facciamo prodotti di qualità e pieni di creatività, abbiamo bisogno della partecipazione delle persone. Chi oggi fa scelte di welfare per convenienza e non per convinzione, quando con ci sarà più convenienza sarà nei guai”.

Anche i sindacati confederali vedono il welfare aziendale come un pilastro di sicurezza sociale, ma senza che tolga terreno o si sostituisca al welfare pubblico e purché non diventi solo questione di risparmio di costi o un’alternativa al reddito.

Serve un punto di equilibrio che lasci alla politica salariale lo spazio dovuto e faccia intervenire il welfare aziendale quando ci sono esigenze trasversali di lavoratrici e lavoratori, come il supporto alla genitorialità, ma anche quello, sempre più impellente, alla non autosufficienza”, ha detto Tiziana Bocchi, Segretario Confederale della Uil.

Nicola Marangiu, Coordinatore dell’area welfare della Cgil nazionale, ha chiesto “una correzione alla normativa che ha omogeneizzato servizi di natura molto differente, dall’assistenza sanitaria al fitness”: “Un’estensione generalizzata del welfare aziendale pone, inoltre, un problema di sostenibilità fiscale, con una riduzione di gettito che finirebbe per avere effetti anche sulla possibilità di finanziare il welfare pubblico”. Per Gianluigi Petteni, Segretario Confederale della Cisl, “la contrattazione deve coniugare esigenze delle aziende con i bisogni e il benessere delle persone”: “Se miglioro la produttività, creo più stabilità, occupazione e reddito da distribuire. È così anche col welfare aziendale, non avrà futuro chi lo vede solo come uno strumento per tagliare costi. Costruiamolo ascoltando i bisogni dei lavoratori”.

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