di Matteo De Leonardis

Una visione lucida, suffragata da idee molto chiare. E’ questo ciò che colpisce delle parole di Emmanuele Massagli, professionista che vanta una profonda conoscenza sui grandi temi del diritto del lavoro grazie alle esperienze maturate fra prestigiosi enti e istituzioni nazionali. Massagli è Presidente di Anseb, Associazione nazionale delle società emettitrici dei buoni pasto, di AIWA, Associazione Italiana Welfare Aziendale, e di ADAPT, Associazione senza fini di lucro fondata dal professor Marco Biagi nel 2000 per promuovere, in un’ottica internazionale e comparata, studi e ricerche in ambito relazioni industriali e lavoro.

Proprio in questa triplice veste ci siamo rivolti a lui per comprendere l’attualità del welfare aziendale in Italia e, soprattutto, i nuovi scenari del mercato del lavoro alla luce dell’esito del recente referendum costituzionale.

Partiamo dal welfare aziendale, quali le principali novità del quadro normativo italiano?

Lo scenario degli ultimi due anni è quello di un ammodernamento generale del welfare aziendale.

Il cambiamento più radicale è nella ‘contrattabilità’ che, di fatto, rende il welfare uno strumento di scambio economico. Non si tratta più di una misura paternalistica alla Olivetti e alla Mattei per intenderci, ma piuttosto, grazie alle nuove norme, di una leva gestionale che pone al centro il dipendente, valorizzando il ruolo delle parti sociali, responsabilizzando la contrattazione di prossimità e comprendendo la funzione anche economica del welfare, senza superarne la finalità sociale.

Passando, invece, all’altro grande tema, quello del Mercato del Lavoro e delle Politiche Attive: alla luce del recente esito referendario in molti hanno parlato di ridimensionamento del ruolo dell’Anpal. Lei è d’accordo?

Le Politiche attive sono indubbiamente il contenuto più importante, ma anche più in ritardo, del Jobs Act. Il ruolo dell’Anpal, così come concepito inizialmente, era centrale. L’agenzia, però, esce azzoppata dall’esito del Referendum Costituzionale che, mantenendo la tutela del lavoro fra le competenze regionali, in realtà non permette ad Anpal di svolgere il ruolo di vero regista delle politiche attive.

Stando così le cose, lo strumento più originale che oggi ha in mano l’Anpal, e che gestisce in buona autonomia, è l’assegno di ricollocazione; parliamo però di una misura finanziata con meno di 40 milioni e rivolta solo a disoccupati percettori di Naspi da almeno 4 mesi, troppo poco per una sperimentazione rivolta a una fascia debole e con numeri bassi. Non è ancora ben chiaro se Anpal riuscirà a rendere più fluido il mercato del lavoro, certo è che lo scetticismo che inizia a serpeggiare sembra essere abbastanza giustificato.

Eppure le Politiche attive sono il nuovo articolo 18 del mercato del lavoro futuro. Una volta si legavano le persone al posto di lavoro con la legge; nel mercato del lavoro del futuro, invece, questo è impossibile perché la velocità di cambiamento dei mercati fa sì che le imprese muoiano e nascano molto velocemente e l’articolo 18 è inutile se l’azienda muore…

Il nuovo articolo 18 è, pertanto, la Politica attiva che permette al lavoratore di trovare un’occupazione, fosse anche diversa. Si tratta di una forma, anche sociale, di sicurezza, da associare alla flessibilità.

L’Anpal sarebbe il perno di questo sistema. Alla luce dell’esito del referendum, però, rischia di diventare un mero strumento di coordinamento e di regia. Senza copertura Costituzionale la Regione può comunque fare come vuole e, sebbene il Governo lo smentisca, è chiaro che il Decreto dell’Anpal del Jobs Act era disegnato in coerenza con la riforma poi bocciata dal referendum.

Anpal quindi ridimensionata. C’è il rischio che ne risenta l’intera riforma?

Il Jobs Act ne risentirà certamente nella sua parte più importante che è quella delle Politiche Attive. Non su tutte le materie, però, perché la parte contrattualistica era e rimane comunque di competenza statale.

Il tema, però, è che sul mercato del lavoro attuale la politica attiva è forse più importante della sola discussione dei contratti. E’ vero che nel dibattito pubblico, i Sindacati soprattutto tendono a spostare l’attenzione su articolo 18 e voucher, ma si tratta di questioni marginali.

Il problema restano i 3 milioni e mezzo di disoccupati, numeri che potrebbero anche crescere col passare del tempo alla luce del cambiamento tecnologico. Per scongiurare questo rischio, la partita si gioca tutta su Politiche attive e formazione continua, peccato però che questi due temi rimangano di competenza delle Regioni che, sia pur con gradi diversi, non sono esattamente fotografia dell’efficienza, troppo piccole per affrontare un problema troppo grande.

Alla luce del referendum, dunque, quali correttivi a suo avviso sono necessari per correggere il tiro?

Qualsiasi Governo dovrà porre al centro il dialogo con le parti sociali e facilitare il rapporto con le Regioni, considerando che di fatto la Costituzione resterà tale ancora per diversi anni. Rispetto ai correttivi del Jobs Act, invece, francamente io non so se ne farei. Dal Collegato lavoro del 2010, sia pur con gradi diversi di intensità, abbiamo vissuto una riforma del lavoro l’anno e i dati del lavoro sono peggiorati, nonostante gli incentivi economici.

Il Governo Renzi ha fatto sicuramente qualcosa destinando 18 miliardi alla decontribuzione, ma questa misura ha funzionato solo per un anno, il 2015; si è generata una bolla; adesso i dati sono tornati gli stessi di quando la misura non c’era.

Ora, visti gli esiti negativi, a mio avviso è inutile intestardirsi sulle regole del mercato del lavoro. Le riforme, piuttosto, vanno fatte in altri ambiti: uno quello economico, quindi la dimensione fiscale; l’altro quello formativo, andrebbero cioè fatte riforme della scuola non in termini di struttura e di numero di docenti da assumere (come accaduto per ‘La buona scuola’), ma in termini di stravolgimento della didattica.

La disoccupazione giovanile non si spiega come un problema dei contratti ma come un problema di preparazione all’accesso al mercato del lavoro; in larga misura dipende dalla tipologia di formazione che i giovani ricevono.

Bisogna pensare non solo alla specializzazione ma alla qualità e alla spendibilità dei contenuti formativi sul mercato del lavoro. Certo intervenire su piani di studio e piani accademici è complesso, è difficile ad ogni livello, sociale e sindacale, oltre che politicamente ostico. E’ molto più facile fare una riforma del lavoro. Intervenire, però, sulla scuola primaria, secondaria e sulle Università, come ha fatto la Germania negli anni passati, è utile, forse inevitabile. Purtroppo non si tratterebbe di una riforma dagli esiti visibili in pochi mesi. I risultati arriverebbero dopo 5-6 anni, quando andrebbero a diploma i nuovi cicli. Un arco temporale, ahimè, troppo lontano per la politica italiana.