Welfare aziendale e centralità della persona che lavora

da Lug 1, 2019Rassegna Stampa, Studi e approfondimenti

di Maurizio Sacconi*

Strana contestazione quella che viene mossa nei confronti del welfare aziendale. Il fenomeno, fortunatamente in crescita anche se ancora embrionale, viene già accusato (non dallo Stato) di eccessivo “tiraggio” fiscale in quanto le prestazioni sociali erogate dal datore di lavoro non costituiscono reddito per il lavoratore. In un Paese in cui il salario diretto è soggetto ad un pesante prelievo da parte dello Stato, delle Regioni e dei Comuni, almeno i benefit aziendali sono detassati perché concorrono al benessere del lavoratore e del suo nucleo familiare. Il ritorno di questa “spesa fiscale” è evidente anche dal punto di vista della fidelizzazione del dipendente che si sente parte di una comunità che lo tutela.

La legge non pretende di stabilire quali siano i contenuti eticamente ammessi perché in modo certo e semplice comprende tutti i bisogni riconducibili ad una vita buona. Sarebbe infatti “costruttivista” ogni norma che pretendesse di definire le spese sociali separandole da una presunta dimensione “ludica” o “ricreativa”, come tale riprovevole. D’altra parte sono evidenti i più generali impatti positivi del welfare aziendale sulla finanza pubblica e sull’economia. Da un lato emergono spese frequentemente erogate “in nero” come quelle per ripetizioni scolastiche o badanti. Dall’altro, tutti questi benefici fiscali si traducono con certezza in consumi, per lo più a carattere interno. Sarebbe quindi assurda una campagna di contestazione che muovesse da una sorta di contrapposizione tra contratti nazionali, con i relativi enti bilaterali, e accordi aziendali. Magari incoraggiata da fornitori di servizi su larga scala.

Al centro deve sempre essere il lavoratore che chiede di essere considerato nella integralità dei suoi bisogni e delle sue aspirazioni. Egli ha bisogno di grandi fondi (nazionali o territoriali) che siano in grado di assorbire i rischi per la protezione sanitaria e per l’assistenza (nel caso di non autosufficienza) fino alla morte. E questi fondi devono essere regolati e vigilati anche sotto il profilo della stabilità. Ma poi la persona può trovare nella tutela aziendale la possibilità di coprire ulteriormente le spese primarie per il benessere fisico proprio o dei familiari come quelle “secondarie” per lo stesso scopo o per coltivare esperienza e conoscenza. La qualità del lavoro dipende anche dalla somma di queste prestazioni.

 

*Il presente articolo è stato pubblicato su Bollettino ADAPT 1 luglio 2019, n. 25

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