Perché il welfare aziendale ha bisogno di informazione e formazione, (diciamolo) soprattutto al sud

da Mag 8, 2018Studi e approfondimenti

di Claudia Baitelli e Francesca Brudaglio*

 

Un lavoratore appagato e sereno è un lavoratore che svolge le proprie mansioni con maggior impegno e dedizione.

È questo l’obiettivo che persegue il welfare aziendale ed è questo il motivo per cui è ormai al centro dell’attenzione di imprese, Stato e lavoratori: permettere alle aziende di aumentare la produttività, contribuendo al benessere dei dipendenti e migliorando il clima organizzativo.

Per un’azienda, costituire un piano di welfare significa infatti riconoscere l’importanza del benessere dei propri lavoratori e adottare politiche per valorizzarli con l’intento, ad esempio, di ridurne lo stress, il turnover e l’assenteismo.

Gli studi che evidenziano come le imprese attive in tal senso riescano a trarne vantaggi e a migliorare le prestazioni del proprio personale sono ormai numerosi ([1]), a tal punto da non aver dubbi che si tratti di una leva strategica nell’ambito della gestione d’impresa.

Fonte: Rielaborazione RWA Consulting, 2018

Per tutti questimotivi, in particolaregrazie alla Legge di Stabilità 2016 (L. 208/2015), il welfare è entrato di fatto tra glistrumenti messi in campo dal Governo per stimolare la produttività delle imprese. Infatti, i premi di risultato contrattati a livello aziendale o territoriale che vengono erogati in virtù di un miglioramento tangibile di produttività, redditività, qualità, efficienza o innovazione possono beneficiare della completa detassazione e decontribuzione qualora il dipendente decida di convertire le somme in servizi di welfare aziendale.

Tuttavia, l’efficacia di questa politica è fortemente collegata all’effettiva conoscenza dello strumento da parte di tutti gli attori coinvolti e, stando ai dati disponibili (o all’esperienza diretta degli operatori che girano tutto il territorio per lavoro), pare che una parte dell’Italia sia ancora in buona parte all’oscuro dei vantaggi che ne possono derivare.

A tal proposito, risultano doverose due considerazioni.

  • Il ruolo centrale delle parti sociali

Sindacati e datori di lavoro sono tra i principali protagonisti di questo processo di cambiamento culturale e organizzativo, chiamati a trovare l’accordo sul Premio di Risultato sforzandosi di comprenderne davvero benefici potenziali, ma anche certamente eventuali criticità.

La corretta stipula dell’accordo è infatti possibile solo quando le parti si confrontano con onestà intellettuale, avendo affrontato lo sforzo di approfondire davvero lo strumento messo a disposizione dal legislatore, senza preclusioni ideologiche o intenti elusivi. Se l’accordo viene “cucito” sulla pelle dell’azienda dalle mani esperte delle rappresentanze datoriali e sindacali, allora può davvero portare benefici concreti a tutte le parti coinvolte.

In questa logica, quindi, anche le associazioni datoriali che supportano le aziende devono sentirsi chiamate in causa e responsabilizzate nella diffusione della cultura del welfare, anche e soprattutto attraverso la promozione delle buone pratiche messe in atto dalle aziende virtuose e di una formazione concreta rivolta ai responsabili del personale e delle relazioni sindacali.

A tal riguardo è interessante analizzare i dati messi a disposizione dal Ministero dal Lavoro relativi al deposito degli accordi di produttività presso le DTL competenti – passaggio obbligato per quanti desiderano fruire del regime agevolato offerto dal legislatore – che registrano un andamento molto positivo, seppure con i necessari distinguo a livello territoriale.

Nel dettaglio, il dato fornito dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ([2]) mostra che da giugno 2016 ad aprile 2018 i contratti relativi a premi di produttività sono passati da oltre 18mila a oltre 31mila, segnando una crescita costante. Di questi, alla data del 16 aprile 2018, quasi 10mila dichiarazioni di conformità si riferiscono a contratti tuttora attivi e oltre il 40% prevedono la possibilità di conversione in servizi welfare per i lavoratori.

Fonte: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2018

È da notare tuttavia come questa crescita sia stata dettata soprattutto da unfermento negoziale del centro-nord Italia: se colleghiamo questo dato fornito a livello regionale al dato di diffusione delle imprese per ogni singola regione ([3]), le evidenze ci mostrano che la contrattazione di secondo livello – e in particolare quella di produttività utile alla diffusione delle pratiche di welfare –sia ancora estremamente contenuta al sud (come è possibile evincere dalla tabella sottostante).

Fonte: Rielaborazione di dati ISTAT 2015 e del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 2018 a cura di RWA Consulting

Il Ministero non esplicita il dettaglio regionale della percentuale di accordi che prevedono la convertibilità del premio in welfare aziendale, ma per un riscontro focalizzato unicamente sulla sua diffusione, possiamo fare riferimento ai dati dell’Osservatorio Easy Welfare relativi all’anno 2017 su 382 aziende appartenenti al portafoglio clienti del provider e analizzati da RWA Consulting.

Da una sua analisi, di queste aziende, solo il 15% risulta localizzata al centro-sud (Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna) ed eroga piani di Welfare Aziendale in Flexible Benefit. Emerge inoltre che questi piani sono finanziati solo nel 50% dei casi da Premi di Risultato, mentre il 30% delle erogazioni ha natura obbligatoria collegata alle previsioni del CCNL Metalmeccanico.

Certo, va considerato chepercentuali così contenute al Sud sono dovute alla presenza di numerosissime imprese di dimensione ridotta che non entrano nelle logiche della contrattazione (a queste, la normativa e la prassi riservano la possibilità di aderire a contratti territoriali, ma non è questa la sede per approfondire il tema). Su questo punto va però sollevata una doverosa precisazione: non è un problema insormontabile.

Le PMI faticano (giustamente) a strutturare piani di welfare aziendale, ma esistono esempi di imprese di uno stesso settore o territorio che hanno “fatto rete” e messo insieme le forze per sviluppare piani di welfare condivisi ([4]).

La soluzione potrebbe dunque essere quella di creare un welfaredi rete che metta insieme soggetti diversi con le stesse esigenze, creare un network, per affrontare in maniera condivisa i costi di gestione e accesso ad una piattaforma comune.

  • L’importanza della formazione

Oltre alla diffusione della cultura del welfare aziendale tra le fila dei datori di lavoro e delle rappresentanze datoriali e sindacali, non è da sottovalutare l’importanza della formazione del lavoratore.

Infatti, in un mercato del lavoro la cui evoluzione è incessante e sempre più rapida, il soggetto più bisognoso di informazione e formazione resta il lavoratore stesso, chiamato ad un ruolo attivo nella scelta della conversione dei premi di risultato in servizi di welfare aziendale: fa capo a lui la selezione dei flexible benefits (non più al datore, come voleva la politica del welfare “paternalistico” olivettiano) ed è per questo importante fornirgli le informazioni necessarie ad effettuare una scelta consapevole.

Risulta dunque fondamentaleistruire i fruitori dei contenuti di un piano di flexible benefits: oltre ad illustrare la tipologia di servizi offerti e le loro caratteristiche, è importante, ad esempio, che il lavoratore sappia quali spese possono essere rimborsate e quali servizi devono essere erogati direttamente dal datore di lavoro (anche tramite terze parti), quali sono i beneficiari per i quali possono essere sostenute queste spese.

Ancora, una scelta pienamente consapevole, dovrebbe essere corredata da una formazione fiscale, seppur molto basica: dai vantaggi fiscali aipossibili impatti contributivi dati dall’esclusione dal reddito delle somme fruite in welfare, sembra sempre più cogente la necessità che i dipendenti prendano coscienza dei meccanismi agevolativi messi a loro disposizione dal sistema fiscale italiano (ovvero la deducibilità e la detraibilità di alcune spese che, se filtrate da un sistema di welfare aziendale, perdono il beneficio fruibile attraverso il 730).

Alla luce di quanto esposto, emerge quanto il welfare aziendale sia uno dei tasselli più visibili del cambiamento della natura del rapporto di lavoro in atto. Le considerazioni avanzate hannoinfatti l’intento di portare alla luce un assunto di base: il welfare non va inteso come una occasione di mero risparmio di costi, ma come leva della gestione del personale, delle relazioni industriali, del benessere aziendale.

È dunque ormai tempo di incoraggiare il coinvolgimento di tutte le comunità che vivono intorno alle impresee stimolareuna riflessione anche in quelle realtà che, apparentemente, non sembrano pronte ad accogliere il welfare aziendale.

 

*Il seguente articolo è stato pubblicato sul Lab-Oratorio di AIDP Lazio, il 7 maggio 2018

([1]) Cit., tra tutti, Welfare Index PMI 2018; Terzo Rapporto sul Secondo Welfare in Italia 2017;  Pesenti L., Il welfare in azienda. Imprese smart e benessere dei lavoratori”, Ed. Vita e Pensiero, 2016.

([2]) Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Premi di produttività, 16 aprile 2018.

([3]) Censimento ISTAT 2015

([4]) Sul punto, si rimanda alla lettura di D. Illarietti, Te lo do io il welfare?, Corriere della Sera, 13 marzo 2018

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