Attori e buone pratiche del welfare integrato

da Nov 14, 2017Studi e approfondimenti

Da un welfare integrativo di quello pubblico a un welfare “integrato” nel quale soggetti pubblici e privati collaborino tra loro in modo attivo e coordinato per formulare le risposte più adatte alle esigenze della popolazione: come le buone pratiche già in atto possono favorire questo auspicabile cambiamento culturale e strutturale?

di Alessandro Bugli*

Il costante ampliamento della platea dei soggetti che forniscono risposte ai bisogni di protezione sociale ci porta a riflettere e a prospettare una maggiore integrazione di ruoli e funzioni tra gli stessi, senza che l’auspicio debba essere letto come invito allo stravolgimento e alla confusa ibridazione di modelli consolidati che si caratterizzano naturalmente per le loro diversità in termini di compiti istituzionali, finalità perseguite, sistemi di funzionamento e modelli gestionali. Chi scrive, per quanto valga, è sempre stato fermo su questa posizione.

La stessa definizione di previdenza (non di “pensione”, che ne è solo un tassello), intesa come la risposta alla necessaria incapacità di sopportare in proprio le esigenze di tutta una vita, dalla nascita alla vecchiaia, è la riprova che i rischi e bisogni del singolo non possano e non debbano essere immaginati come “mondi” a loro stanti, privi di una stella comune intorno alla quale ruotare. Lungo il corso della vita, i rischi a cui siamo esposti e i bisogni che ne possono conseguire continuano a mutare. Previdenza significa sapere dare risposta a tutte queste esigenze (o almeno alle principali), senza che – ad esempio – il rischio di vivere in terza età senza reddito possa essere considerato ontologicamente più importante di quello di infortunarsi gravemente in giovane età o di dover ricorrere a cure per sé e per i propri cari. Il rischio di trovarsi senza un’occupazione per un periodo della vita o conoscere una riduzione protratta del reddito professionale non è evidentemente meno insidioso della perdita di una fetta del tasso di sostituzione al tempo della pensione. Peraltro, i fattori si collegano e, così, procedendo ancora per esempi, a una riduzione del reddito per una determinata categoria professionale o per la componente giovane di questa consegue una minor raccolta fiscale e, anche, contributiva, con messa in crisi del sistema a ripartizione e difficoltà di pagare i trattamenti pensionistici in essere e quelli futuri.

Da qui, la necessità di operare in modo coordinato con una visione ad ampio spettro, anzi a 360 gradi, su tutte queste esigenze, per le quali gli attori di cui si discute forniscono risposta.

Provando, ora, a contare i componenti di questa “platea” (casse dei liberi professionisti, fondi pensione, realtà della sanità integrativa, fondazioni bancarie) si arriva a quota 772 (!).

La coorte degli iscritti/aderenti alla “platea” (al netto delle fondazioni bancarie che ne sono prive per definizione, ma dei cui servizi sul territorio beneficiano in tanti) può essere così sommariamente riassunta:

  • Previdenza complementare: 8 milioni
  • Enti sanità integrativa: 10 milioni
  • Casse di Previdenza: 1,6 milioni

I valori non devono essere sommati. Infatti, molti italiani vanno a riempire tutte e tre le file degli iscritti alle singole realtà. Siamo comunque al cospetto di numeri importanti (e speriamo!) in costante crescita.

Le risorse amministrate da questi enti per il 2016 sono state pari a più di 227 miliardi di euro.

Si aggiungano, poi, con le loro peculiarità e differenze, le compagnie di assicurazione che – da sole – gestiscono risorse per almeno 517 miliardi di euro e raccolgono un numero importante di assicurati. E’ di tutta evidenza come anche queste realtà siano attrici del nuovo modello di welfare integrato e il loro approccio alla materia stia – negli anni – sensibilmente cambiando. E’ chiaro, infatti, come parte delle risorse amministrate da fondi e casse sia veicolato verso imprese di assicurazione, la cui presenza garantisce in concreto la sostenibilità della promessa di servizio e come, allo stesso tempo, le stesse imprese (pur con regole, limiti e fiscalità differenti) siano esse stesse prestatori di offerte retail verso i singoli, pur con le difficoltà date – in alcuni ambiti (esempio, quello sanitario integrativo) – dalla selezione avversa nella raccolta di rischi singoli in luogo di prestare garanzie a favore di vaste collettività, i cui rischi sono per definizione maggiormente mutualizzabili e assicurabili a condizioni di maggior favore per entrambe le parti coinvolte dalla polizza.

In via di prima conclusione, pare lecito e corretto affermare come l’Italia conti un numero importante di attori del welfare integrato, diversi tra loro per caratteristiche, prestazioni rese e modalità di gestione. Forse un primo esercizio dovrebbe essere svolto per comprendere se effettivamente tutti (ma proprio tutti) questi attori, per dimensione e conseguente impatto dei costi sui singoli iscritti/aderenti, debbano necessariamente proseguire in proprio la loro attività o, nei casi in cui vi sia comunanza di obiettivi e di destinatari, sia opportuno – come in alcuni casi si è già fatto – invitarne la fusione.

Gli attori del welfare integrato, per numero di interessi coinvolti e risorse amministrate, sono i mattoni di quel secondo e terzo pilastro portanti nel nuovo modello di welfare multipillar. Modello fondato sulla corretta integrazione tra pubblico e privato per la giusta risposta ai rischi e bisogni dei singoli (bisogni pensionistici, sanitari, assistenziali e non solo) e oramai optato, privilegiato e perseguito da tutte le realtà nazionali evolute (e non solo).

Se la via dell’integrazione tra pubblico e privato, in tutti i settori, è stata ben pavimentata da più di 20 anni a questa parte (anche se c’è ancora molto da fare), quella di collaborazione tra i diversi attori del welfare complementare per materia e competenza è ancora – spesso – oggetto di solo “tratteggio” sulla mappa di questo nuovo mondo.

Sussistono ancora limiti nel contesto normativo di riferimento da necessariamente superarsi se si vuole giungere al risultato. Solo per cenni:

  1. il quadro legislativo è ancora troppo frammentato e le singole disposizioni dettate per una materia (es. previdenza complementare o casse dei professionisti, ma il ragionamento può essere esteso a tutti gli attori) molto spesso non dialogano con quelle scritte per il settore con cui si vorrebbe operare in logica integrata. Alcuni settori sono, poi, puntualmente (e, forse, estremamente) regolamentati, mentre per altri (es. la sanità integrativa) la normativa è lacunosa sotto molteplici aspetti;
  2. lo stesso approccio ai rischi e bisogni non è sempre coordinato. Si pensi al caso della risposta ai fenomeni di invalidità e non autosufficienza. Tutti gli attori, in modo più o meno cogente, sono chiamati a predisporre soluzioni utili, ma l’assenza di coordinamento rischia di condurre a esiti molto meno interessanti di quelli auspicati;
  3. in alcuni ambiti (ancora una volta, ad esempio, quello sanitario integrativo) mancano regole puntuali e comuni in termini di trasparenza negoziale nei confronti dell’utenza. Ogni realtà è libera di predisporre la propria documentazione informativa secondo quello è il suo prudente apprezzamento, ma ciò rende ragionevolmente incomparabile l’offerta tra singole realtà e può essere di pregiudizio per la scelta consapevole da parte del singolo iscritto e dei suoi familiari;
  4. la vigilanza, in molti casi, formalmente sovrabbondante e difficile da coordinare. Almeno sulla carta, ad esempio, se si guardi ai singoli testi di legge vigenti e si prenda a spunto uno dei diversi casi, le società di mutuo soccorso dovrebbero essere monitorate [per temi e finalità diverse] da Ministero della Sanità, MISE, Associazioni di rappresentanza, IVASS e Agenzia delle Entrate;
  5. la leva fiscale potrebbe essere essa stessa coordinata utilmente in questo nuovo modo di approcciarsi al tema del welfare a 360 gradi. Il tutto giungendo al più volte auspicato plafond unico per il welfare complementare, il cui utilizzo è lasciato – secondo le diverse esigenze – ai singoli e, eventualmente, ai loro rappresentanti.

Se questo è compito del legislatore, anche se sarebbe necessario che chi ne condivide il contenuto si facesse parte diligente per stimolare un intervento in materia, è vero che – pur nei limiti detti – i recenti lavori dell’Annual Meeting sul Welfare Integrato hanno dimostrato come delle buone pratiche di collaborazione già esistano (es. tra fondi pensione e fondi sanitari, ma anche tra fondazioni bancarie e altri enti) e come questo sia uno dei cantieri di maggiore interesse prospettico per tutti gli attori coinvolti. Alcuni esempi, sono la messa in comune delle strutture operative e l’utilizzo congiunto di prestatori di servizi, ma anche – in termini più alti – l’investimento per quote ripartite in progetti destinati al miglioramento del territorio, del tessuto economico e per il superamento del fenomeno della c.d. “povertà educativa”, che sarà uno dei più importanti cantieri di lavoro prospettico per raggiungere i fini detti.

In conclusione, la nuova sfida che ci attende è un ulteriore passo culturale e strutturale in avanti da un’idea di creazione di un welfare integrativo (di quello pubblico) – obiettivo non ancora del tutto raggiunto, ma forse neanche troppo lontano – a quella di welfare “integrato”dove pubblico e tutti i privati collaborino attivamente e in modo coordinato gli uni con gli altri, per una vera utile risposta ai rischi e bisogni di questo tempo.

Alessandro Bugli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Area Assicurativa e Welfare Studio Legale Taurini&Hazan

*Il seguente articolo è stato pubblicato su Itinerariprevidenziali.it, il 13 novembre 2017

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